Chernobyl 30 anni dopo, la risposta dell’ambiente alle radiazioni
Alcuni animali potrebbero averne beneficiato, altri no. È presto per parlare di adattamento in termini evolutivi, ma comprendere la risposta delle varie specie tornerà utile anche in altri ambiti. Ad esempio lo studio dei cambiamenti climatici
Chernobyl oggi: alci, castori, cervi, caprioli, ma anche cinghiali, uccelli canori, rapaci, roditori e lupi. Rimossa la variabile umana, con oltre 350mila persone che hanno abbandonato la loro casa -molte per non tornarvi più- la fauna selvatica ha ripreso il sopravvento a Chernobyl, nella zona di alienazione (Chernobyl Exclusion Zone) e dintorni, ancora contaminate seppur a livelli non paragonabili a quelli del periodo immediatamente successivo l’incidente. Sono trascorsi trent’anni da quell’aprile del 1986, e se tutti gli scienziati sono d’accordo sugli effetti nocivi delle radiazioni ionizzanti, su esseri umani e animali, ancora non è chiaro quanto siano gravi e in che termini abbiano determinato un calo delle popolazioni.
Ne parliamo con Andrea Bonisoli Alquati, ricercatore nell’ambito della radioecologia e membro della Chernobyl Research Initiative, che a partire dal 2000 in Ucraina e dal 2005 in Bielorussia ha condotto indagini scientifiche studiando gli effetti delle radiazioni sull’ambiente, sotto la guida di Timothy A. Mousseau e Anders P. Møller.
Nel 2014 mi raccontavi che considerare Chernobyl un Eden post-apocalittico era scorretto, perché non c’erano dati storici che permettessero di capire se le popolazioni erano in declino. Uno studio recente su Current Biology parla di lunghi monitoraggi e conclude che il numero di animali selvatici è pari ad altre regioni non contaminate, con ungulati in aumento e sette volte il numero di lupi.
La pubblicazione di questi dati è stata una sorpresa, perché non ne conoscevamo l’esistenza. Sono emersi a quasi 30 anni dall’incidente, confermando che abbiamo perso l’opportunità di studiare nel dettaglio gli effetti delle radiazioni fin dall’inizio. Inoltre mancano le informazioni fisiologiche sulle varie specie, perciò dimostrano solo che l’assenza umana compensa, o più che compensa gli effetti negativi delle radiazioni. Non sono stati presentati in contraddizione con i nostri risultati, se non con uno studio di Møller che nel 2013, attraverso le tracce sulla neve, ha riscontrato un apparente declino nel numero di mammiferi, senza distinguere però tra linci, lupi, lepri e altre specie più piccole. La mia opinione è che a livelli di radiazioni elevati il declino ci sia; rimane da verificare quali siano stati gli effetti fisiologici legati alla riproduzione.
Qualunque animale è attratto dall’assenza di persone, quindi di disturbo antropico anche attraverso la caccia: pensiamo ai cinghiali di Fukushima, di cui si sta parlando molto. L’abbondanza locale degli animali aumenta, ma capire se stiano soffrendo è un discorso del tutto diverso. Nel 2007 uno studio di Møller, condotto sulle rondini delle aree più contaminate, mostrava che le popolazioni erano in declino nonostante l’ampio flusso migratorio diretto all’interno della regione. Analizzando i marcatori degli isotopi stabili di carbonio, azoto e idrogeno è possibile ottenere informazioni sulla provenienza degli uccelli, ed è così che Møller e i suoi collaboratori hanno dimostrato che nelle zone più contaminate la diversità di provenienza delle rondini era maggiore, sia rispetto al passato sia confrontandola con quella di aree meno contaminate. Gli uccelli migravano all’interno della zona più contaminata.
Quindi parlare di aumento del numero di animali – e considerarlo positivo di per sé – non fornisce un quadro completo sugli effetti delle radiazioni. Come è cambiata la percezione della situazione a Chernobyl, in questo senso, nell’ultimo decennio?
All’uscita dei primi dati sulla numerosità degli animali a Chernobyl, il lavoro dei colleghi Møller e Mousseau è stato criticato perché era in conflitto con le informazioni che si avevano al tempo. Guardando i rapporti del Chernobyl Forum, ad esempio quello uscito nel 2006, i dati quantitativi sugli effetti ambientali non ci sono e tutto si basa su aneddoti. La conclusione era proprio che Chernobyl si era trasformata in una sorta di riserva naturali ma la ragione storica dietro questo approccio è che ci si basava su calcoli teorici e, in base alle conoscenze del tempo, si pensava che le radiazioni ionizzanti non fossero in grado di portare a un declino delle popolazioni. La stessa idea di tutela ambientale era molto diversa da quella attuale, meno avanzata e in un’ottica di protezione dell’essere umano più che della natura.
Parliamo della reazione degli animali allo stress ossidativo: si stanno adattando o no?
Negli ultimi anni abbiamo fatto passi in avanti nel comprenderlo, ma non quanti ne servirebbero per concludere che c’è stato un adattamento evolutivo, ossia un cambiamento nelle frequenze di geni per effetto della selezione naturale. Un mio articolo, ora in fase di revisione, dimostra che alcune specie potrebbero essersi adattate. Sono quelle più soggette a selezione sessuale, il che nell’ottica della biologia evoluzionistica è una scoperta interessante: si pensa che i caratteri sessuali secondari siano indicatori della resistenza allo stress ossidativo. Nelle specie in cui la selezione sessuale è più intensa, dunque, dovrebbe “cooperare” con la selezione naturale per produrre un adattamento alle radiazioni. In quelle in cui lo è di meno, l’evoluzione della resistenza dipende solo ed esclusivamente dalla selezione naturale. Perciò è meno efficiente, richiede più tempo ed è più soggetta a errori.
Ma come si valuta l’intensità della selezione sessuale in una specie?
In termini di dimorfismo di taglia: un buon esempio è la rondine, in cui maschio e femmina hanno dimensioni molto simili e la resistenza infatti non si è evoluta. O perlomeno non si è manifestata. Al momento non abbiamo le evidenze genetiche per poter dire che c’è stata evoluzione in senso stretto, e proprio per questo il punto di svolta è stato riuscire a verificare che le dinamiche di selezione sessuale sono in grado di spiegare il potenziale adattamento in atto. Mousseau e Møller, basandosi sui criteri generali necessari per parlare di vera e propria evoluzione a Chernobyl, hanno concluso che c’è un solo caso in cui siano stati soddisfatti. Si tratta di batteri, mentre per gli animali, uccelli compresi, non c’è ancora una dimostrazione in senso stretto.
Dal punto di vista genetico come è possibile verificare la presenza di un adattamento?
Sfruttando dei marcatori, ad esempio geni che si ritengono coinvolti nella resistenza allo stress ossidativo o nella riparazione del DNA, che intervengono nella sintesi del glutatione o della melanina ed enzimi antiossidanti. In futuro vorremmo studiare proprio questo: partendo da dei marcatori neutrali, capire se le popolazioni abbiano subito una contrazione o un’espansione storica e stabilire, così, se sono state soggette o meno a selezione.
Alcuni studi hanno indagato la visione degli animali; cosa ci dicono sugli effetti delle radiazioni ionizzanti?
Nel 2013 uno studio ha concluso che in alcuni uccelli erano aumentate frequenza e gravità delle cataratte a livelli elevati di radiazioni, mentre un altro più recente ha fatto un ulteriore passo in avanti: osservando dei piccoli mammiferi, le arvicole, è riuscito a collegare i danni alla visione a un ridotto successo riproduttivo, una componente importante della fitness. Dagli studi su esseri umani sappiamo che l’esposizione alle radiazioni induce cataratte, perciò in questo caso ci si avvicina a stabilire un parallelismo tra noi e gli animali. A differenza dello stress ossidativo, che può essere legato alla presenza di altri contaminanti, la cataratta è un marcatore specifico degli effetti di esposizione alle radiazioni.
E per quanto riguarda piante e funghi? Uno studio ha concluso che, nel caso delle piante di soia di Chernobyl, si sarebbe verificato un adattamento alle radiazioni a livello dell’insieme di proteine degli organismi, il proteoma.
In questo caso parlerei di plasticità fenotipica, ovvero la messa in atto di una risposta fisiologica all’esposizione a radiazioni, e non di adattamento evolutivo. L’utilizzo del termine “adattamento” è un esempio delle difficoltà di dialogo e chiarezza tra ricercatori di diverse discipline dovute al fatto che la ricerca a Chernobyl è al confine tra vari ambiti di studio. Noi approcciamo il problema dal punto di vista della biologia evoluzionistica, altri da quello della tossicologia e dell’ecotossicologia. Quindi possiamo parlare di un adattamento fisiologico, come nel caso di queste piante, e uno di tipo evolutivo. Ma anche qui, la presenza di un beneficio nel breve periodo non può escludere che a lungo termine la plasticità fenotipica comporti dei costi notevoli.
Quando un organismo mette in atto meccanismi di questo tipo, per superare un particolare stress e avere successo nella riproduzione, solitamente lo fa al costo di future opportunità di riprodursi o di sopravvivere. Anche per questo è difficile stimare la fitness in natura: i singoli episodi non sono necessariamente indicativi del successo sul lungo periodo. Lo stesso vale per i mammiferi di cui parlavamo prima: il fatto che ora ci siano e si riproducano non significa che la riproduzione non sia per loro estremamente costosa, un trade-off tra il successo e la sopravvivenza di oggi con quelle future.
A partire dal luglio 2011 la Chernobyl Research Initiative ha condotto spedizioni anche a Fukushima: quali differenze ecologiche è stato possibile individuare finora?
È presto per dirlo, perché per quanto riguarda le specie presenti in entrambi i luoghi siamo fermi ai conteggi. Basandosi non su dati storici ma su un confronto tra zone più e meno contaminate, sembrerebbe che in Giappone il declino sia stato addirittura più marcato rispetto a Chernobyl per simili livelli di radiazioni, come indicato anche dai dati sull’age ratio: nelle rondini il numero degli esemplari giovani diminuisce all’aumentare delle radiazioni. Il che può indicare due cose: o i giovani non sopravvivono, perché i pulcini non riescono a involarsi dal nido, o i genitori si riproducono meno. Per il momento questa specie è l’unica ad aver permesso un vero parallelo tra Chernobyl e Fukushima, perché oltre ai conteggi sono stati misurati gli animali.
È ancora da verificare in modo definitivo, ma un altro aspetto interessante è che l’albinismo parziale osservato nelle rondini di Chernobyl a partire dagli anni ‘90 del Novecento sembra essersi verificato anche in quelle di Fukushima. Le penne albine nel piumaggio sono state associate a un incremento dei tassi di mutazione a livello della linea germinale, quindi potrebbero essere trasmesse alla generazione successiva. Anche le osservazioni dei bird watcher giapponesi e i dati raccolti finora sembrano confermare l’ipotesi.
Trent’anni dopo, a che punto è la nostra conoscenza della Chernobyl post-incidente e degli effetti delle radiazioni sul suo ambiente?
Sorprendentemente c’è ancora tanto da fare, ma credo che l’interesse dei nuovi gruppi di ricerca sia molto positivo. Le evidenze che non sia “rose e fiori” come si è detto a lungo sono ovunque, a ogni livello di complessità biologica. Grazie a Chernobyl stiamo imparando moltissimo, ad esempio a stimare come gli effetti fisiologici si traducano in dinamiche di popolazione, a comprendere le dinamiche dei contaminanti e come questi bilancino gli effetti positivi dell’assenza degli esseri umani. Quando si parla di Chernobyl la domanda è sempre “l’esposizione alle radiazioni fa bene o male?”, ma le questioni sono molto più numerose e complesse. Alcuni organismi possono averne beneficiato mentre altri no, e tra gli effetti indiretti dobbiamo considerare che il declino di una specie può significare la fortuna di un’altra.
In futuro, i progressi fatti a Chernobyl studiando l’esposizione agli inquinanti potranno aiutarci a capire le risposte adattative ed evolutive che le specie mettono in atto di fronte ai cambiamenti climatici. L’esposizione a temperature alte alle quali non sei adattato ha, tra le varie conseguenze fisiologiche, proprio lo stress ossidativo. È facile prevedere che le specie maggiormente in grado di evolvere una risposta di resistenza allo stress ossidativo saranno anche quelle a soffrire di meno di fronte a temperature più elevate.
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