Deepwater Horizon, uno studio durato quattro anni misura le conseguenze sui delfini
Aumento delle morti fetali e decesso dei piccoli subito dopo la nascita. Le femmine gravide durante l'incidente del 2010 hanno pagato caro lo sversamento di petrolio.
AMBIENTE – Dopo uno studio durato quattro anni, gli scienziati al lavoro nel Golfo del Messico hanno pubblicato nuovi dati su una specie di delfini, i tursiopi, colpiti dal disastro ambientale della Deepwater Horizon. Sei anni fa, il 20 aprile 2010, dalla piattaforma petrolifera finirono in mare 500 000 tonnellate di petrolio greggio. Ne emerge un quadro piuttosto chiaro: i delfini appena nati e i feti trovati sulle spiagge colpite dalla marea nera presentano differenze importanti rispetto a quelli delle aree “sane”.
I ricercatori hanno studiato 69 esemplari tra Alabama, Louisiana e Mississippi, gli stati più colpiti dallo sversamento, confrontandoli con altri 26 rinvenuti nelle aree non colpite. L’obiettivo era vederci chiaro sullo stato di salute di questa specie (Tursiops truncatus) che aveva già attirato l’attenzione per l’aumento della mortalità tra il 2010 e il 2014, dall’incidente in poi.
L’88% dei delfini perinatali trovati nell’area del versamento presentava anormalità a livello dei polmoni, che spesso erano parzialmente o del tutto collassati. Basandosi sulle dimensioni degli animali, sembrerebbero essere morti in utero o subito dopo la nascita. Per di più “erano molto più piccoli di quelli spiaggiatisi negli anni precedenti, o in altre zone”, scrivono gli autori dello studio. Tra questi ultimi, non colpiti dal petrolio, a presentare anormalità era solo il 15%.
La gestazione di un tursiope dura più di un anno, circa 380 giorni, perciò i piccoli morti all’inizio del 2011 potrebbero essere stati esposti al petrolio fuoriuscito con l’esplosione quando ancora erano all’interno dell’utero materno. “Le femmine che hanno perduto i feti nel 2011 erano all’inizio della gravidanza nel 2010, durante lo sversamento”, conferma in un comunicato Kathleen Colegrove del laboratorio di diagnostica veterinaria all’Università dell’Illinois. “Queste scoperte supportano l’idea che le femmine gravide siano state colpite da problemi di salute che hanno contribuito ad aumentare le morti fetali, o il decesso dei piccoli subito dopo la nascita”.
La ricerca sul Golfo
Tutti i nuovi studi peer reviewed pubblicati e in uscita – di un altro lavoro sui tursiopi avevamo parlato qualche tempo fa – contribuiscono a chiarirci le idee sull’impatto a lungo termine di una catastrofe ambientale come questa, considerata la più grave ad aver colpito gli Stati Uniti. Nel 2015 la British Petroleum ha rilasciato dichiarazioni prematuramente positive, dicendo che “l’ambiente del Golfo sta ritornando alle condizioni precedenti lo sversamento”. Ma la ricerca racconta una storia diversa, che coinvolge non solo gli animali marini ma tutti i delicati ecosistemi costieri del Golfo del Messico, in primis le paludi salmastre, casa di numerose specie di uccelli, insetti e roditori nonché importante sito di stop over per gli uccelli migratori.
Le indagini scientifiche vengono svolte con la coordinazione della Gulf of Mexico Research Initiative (GoMRI), l’istituzione che organizza la ricerca indipendente sugli effetti del disastro. È una parte del risarcimento che la British Petroleum è tenuta a pagare, dopo che si è impegnata a finanziare questo tipo di studi con 500 milioni di dollari nell’arco di un decennio. Ma non sempre fare un confronto tra il prima e il dopo è semplice: proprio come è accaduto per Chernobyl, che spesso viene presentata come una sorta di Eden post-apocalittico ricolmo di lupi, cinghiali e cervi, mancano molti dati storici che permettano di stabilire con rigore se ci sono o meno state delle fluttuazioni importanti nel numero di animali. Saranno necessari molti anni di ricerca per avere un quadro davvero completo e tirare le somme di quanto sia costata al Golfo questa catastrofe.
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