Deepwater Horizon, l’impatto sugli abitanti della costa
Il sondaggio: copertura dei media, servizi sanitari e volontariato tra i punti forti nel Golfo del Messico, deboli la ripresa dell'economia e la gestione dei leader locali
ESTERI – Sono passati cinque anni dal disastro della Deepwater Horizon, l’esplosione che fece riversare nel Golfo del Messico più di 500mila tonnellate di petrolio greggio. Se per le prime vittime alcuni numeri ci sono, con 11 lavoratori morti a causa dell’incidente e circa 6.000 uccelli morti nel primo anno, c’è probabilmente ancora tanto da contare e su molti fronti. Ci vorranno decenni prima di capire davvero le conseguenze di questa tragedia ambientale, la più grave ad aver toccato gli Stati Uniti, non solo per fauna e flora ma anche per le persone che abitano sulla costa.
Mentre le squadre di ricercatori coordinate dalla Gulf of Mexico Research Initiative (GoMRI) sono al lavoro sul campo, studiando l’ambiente delle paludi e della costa, un forum regionale si è riunito da poco per discutere l’impatto del disastro BP (da British Petroleum, che gestiva la piattaforma) sulle comunità locali. Partendo da un sondaggio telefonico dell’Università della Florida, che nel gennaio 2015 ha raccolto le opinioni dei residenti (448 persone dai 18 anni in su tra Baldwin County a Levy County) della costa del Golfo sulle sue condizioni attuali, e sul recupero in questi cinque anni.
Come stanno l’industria ittica e l’economia della zona colpita? La gestione dell’emergenza ha funzionato? Come si sono comportati e si comportano i media? Ecco cosa dicono gli abitanti.
- Il 28,7% dei residenti dice di essere stato personalmente danneggiato dal disastro
- Il 39,4% ha trovato insoddisfacente o molto insoddisfacente la gestione dell’incidente da parte dei leader locali
- Il 34,9% è in disaccordo o forte disaccordo con l’idea che l’economia del Golfo si sia ampiamente ripresa, e il 42% con l’idea che la comunità del Golfo sia più resistente ora rispetto a prima dell’incidente
- Il 41,1% è soddisfatto o molto soddisfatto della situazione dell’industria ittica post-disastro, e il 50,4% si dice d’accordo con l’idea che il pesce che proviene dal Golfo sia sicuro per il consumo alimentare
- Il 67,7% è rimasto soddisfatto o molto soddisfatto della gestione dell’emergenza
- Il 31,6% è in disaccordo o forte disaccordo con l’idea che i programmi comunitari istituiti dopo l’incidente stiano ancora portando risultati utili
- Il 73,7% considera i programmi di volontariato importanti o molto importanti in risposta a una crisi ambientale
- Il 72% concorda sull’importanza di avere informazioni aggiornate e basate sui fatti dopo un disastro ambientale, tramite i media locali
- Il 53,4% concorda sull’importanza di avere a disposizione servizi sanitari per la tutela della salute mentale dopo un disastro ambientale
Insomma il petrolio non è più visibile agli occhi, ma si fa ancora sentire in molti altri modi. E sia sul fronte economico che su quello ambientale sarebbe ingenuo pensare di poter trarre conclusioni già ora. “Ho visto come si presentano quei fondali” diceva quattro anni fa Samantha Joye dell’Università della Georgia “per il 2012 il dramma del Golfo del Messico non sarà affatto risolto”. E aveva ragione. Per fare un confronto basta pensare all’incidente Exxon Valdez, quando la petroliera della ExxonMobil -incagliatasi su una scogliera il 24 marzo 1989, nello stretto Prince William, in Alaska- riversò nell’oceano oltre 200.000 tonnellate di petrolio. Ancora oggi, 26 anni dopo, i punti di domanda rimangono numerosi.
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Crediti immagine: Green fire productions, Flickr