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Le app per la salute mentale funzionano?

È possibile utilizzare uno smartphone per curare un disturbo mentale? Negli ultimi anni si sono diffuse molte applicazioni, ma le prove della loro efficacia e sicurezza sono spesso carenti

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Sono molte le applicazioni per smartphone dedicate al monitoraggio di disturbi mentali, ma le evidenze scientifiche spesso mancano. Crediti immagine: Public Domain

APPROFONDIMENTO – Depressione, ansia, disturbo post-traumatico da stress, schizofrenia, disturbi alimentari, disturbo bipolare, dipendenze: esistono decine di applicazioni per smartphone per ognuno di questi disturbi psicopatologici. Secondo quanto riportato recentemente su Nature, nel 2013 erano disponibili 1500 app dedicate alla sola depressione. Ma qual è il valore terapeutico di queste applicazioni? Sono sicure? Quali sono i rischi?

Le app che si propongono di fornire un supporto nei vari casi di disturbo mentale possono essere genericamente divise in due categorie: attive e passive. Le prime richiedono un intervento diretto dell’utente, che può per esempio utilizzarle per registrare il suo stato d’animo e le sue esperienze. La seconda categoria comprende invece quelle app che autonomamente registrano le azioni dello smartphone, per esempio monitorando le coordinate GPS, lo scambio di messaggi e le telefonate o sfruttando altri tipi sensori. Questi strumenti servono per due funzioni principali: per tenere sotto controllo i sintomi oppure per fornire un intervento (attraverso l’invio di promemoria e semplici istruzioni o attraverso la connessione diretta con un terapeuta).

Per fare qualche esempio, ClinTouch è una app dedicata ai pazienti che soffrono di psicosi che permette di monitorare i sintomi e, in caso di necessità, inviare segnali al medico. FOCUS, sviluppata dal gruppo di ricerca del Darmouth College guidato da Dror Ben-Zeev, si propone come un aiuto per i pazienti schizofrenici. Questa app utilizza una serie di algoritmi che aiutano a regolare l’umore, migliorare il sonno, rispettare l’assunzione dei farmaci e intervenire sui sintomi “positivi” della malattia. Per esempio, se il paziente soffre di allucinazioni uditive, la app può chiedere di stimare la gravità del sintomo e può proporre degli esercizi cognitivi. Per entrambe queste app sono in corso studi clinici, ma questi casi rappresentano un’eccezione.

Qualità e sicurezza

Alcune tra le migliaia di applicazioni disponibili negli app store sono destinate all’uso di medici e psicologi, ma quasi tutte sono dirette al grande pubblico e nella maggior parte dei casi il loro sviluppo non coinvolge né i medici né pazienti. Può allora accadere che agli utenti arrivino delle informazioni sbagliate, come accaduto nel caso di una app destinata a pazienti affetti da disturbo bipolare. A volte l’utilizzo dell’applicazione si è rivelato controproducente. In un caso, divenuto ormai esemplare, una app testata per ridurre il consumo di alcol negli studenti universitari ha avuto l’effetto opposto.

La difficoltà rimane quindi quella di garantire la validità scientifica, che nella maggior parte dei casi non viene verificata in nessun modo. Una rassegna della letteratura scientifica del 2013 ha evidenziato che su un totale di 3000 app disponibili in quel momento soltanto 8 erano state testate attraverso studi clinici.

Nel 2013 l’NHS, il sistema sanitario nazionale del Regno Unito, aveva fornito una lista di app sulla salute considerate sicure e affidabili. Uno studio del 2015 ha però evidenziato che delle 14 applicazioni per la depressione e l’ansia, solamente 4 erano basate su studi scientifici (WorkGuru, Happy Healthy, Big White Wall, Moodscope).

Un altro aspetto che rimane da risolvere, comune ad altri ambiti dell’e-health e nello specifico della m-health (mobile health, cioè salute che passa dal telefonino), è quello della privacy. Uno studio del 2013 ha individuato come molte delle stesse app consigliate dall’NHS non utilizzassero nessun sistema per proteggere i dati degli utenti (la pagina dell’NHS che conteneva la lista è stata ora rimossa).

In attesa dello sviluppo di metodi e regolamenti che possano garantire la qualità e la sicurezza di questi strumenti, il suggerimento dei ricercatori è quello di utilizzare le app chiedendo il parere del proprio medico o psicoterapeuta.

Terapia cognitivo-comportamentale via internet

L’utilizzo delle app è associato a quella che viene definita terapia cognitivo-comportamentale, un approccio che si è sviluppato nel mondo anglosassone a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Questo filone psicoterapeutico si basa sull’individuazione di pensieri e schemi disfunzionali e sulla sostituzione degli stessi con pensieri realistici e orientati all’azione. La prassi prevede che durante gli incontri con il terapeuta vengano stabiliti “compiti a casa”, prove ed esercizi che il paziente deve svolgere per superare gradualmente il suo disturbo. Per questo, il monitoraggio via internet dei progressi è stato già utilizzato sia come supporto ai colloqui diretti sia per lo sviluppo di un vero e proprio tipo di terapia, la CCBT (computerized cognitive behavioral therapy, cioè terapia cognitivo-comportamentale computerizzata), anche detta ICBT (internet-delivered cognitive behavioral therapy, terapia cognitivo-comportamentale somministrata via internet).

L’uso del computer e della rete si è rivelato utile per incuriosire e avvicinare gruppi di popolazione specifici, come per esempio i bambini e gli adolescenti, ma anche per raggiungere le persone che hanno difficoltà a iniziare la terapia perché soffrono ad esempio di fobia sociale o depressione. I pazienti possono essere seguiti e stimolati attraverso sms, software, email, oppure appunto attraverso le app, e al termine della fase più grave del disturbo ricevere incoraggiamenti e indicazioni per affrontare la fase finale del recupero.

In ogni caso però, come ricorda Scientific American, gli effetti di tutte le terapie internet-based sono migliori quando il paziente viene assistito nel suo percorso da uno psicoterapeuta.

Leggi anche: Come condividere i dati sanitari?

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Francesca Camilli
Comunicatrice della scienza e giornalista pubblicista. Ho una laurea in biotecnologie mediche e un master in giornalismo scientifico.