Come condividere i dati sanitari?
Un nuovo studio dell'Università di Pittsburgh mette in luce le attuali barriere dell'e-health. Ma anche troppo entusiasmo forse è rischioso.
APPROFONDIMENTO – I casi come Ebola ci insegnano che la sanità oggi è una questione globale e come conseguenza anche le azioni intraprese per garantire la salute devono coordinare tutti gli stakeholders coinvolti, nazionali e sovranazionali. È necessario creare una rete che favorisca anzitutto la raccolta e lo scambio dei dati, ma che mantenenga al contempo la privacy degli individui. All’interno della filosofia dello sharing che caratterizza il web, una delle sfide della sanità pubblica del XXI secolo è infatti abbattere più barriere burocratiche possibile senza per questo intaccare la sfera privata dei malati.
Recentemente sulla rivista BMC Public Health, un team internazionale di ricercatori guidati dalla Graduate School of Public Health dell’Università di Pittsburgh ha pubblicato un’analisi, non certo la prima nel settore, che esamina una per una le barriere che impediscono una condivisione e una fruizione libera ma rispettosa dei dati riguardanti la salute, con l’obiettivo di proporre un dialogo internazionale per individuare possibili soluzioni. OggiScienza ha chiesto di commentare la validità, i limiti e le potenzialità di questo studio ad Antonio Vittorino Gaddi, vicepresidente della SIT (Società Italiana di Telemedicina), esperto di sanità elettronica e condivisone dei dati in ambito sanitario.
I caveat
“La prima cosa da dire – spiega Gaddi – è che di studi come questo sulla eHealth e sulla telemedicina ve ne sono stati diversi negli ultimi anni. Ne ho raccolti oltre 1600, 250 dei quali sembrano più interessanti di quest’ultimo. Detto lavoro è una revisione sistematica della letteratura degli ultimi anni e cerca di individuare le principali barriere dell’e-health; l’intento è encomiabile, ma per avere una visione (e una maggiore numerosità) sarebbe opportuno prendere in considerazione almeno altri 30-40 studi precedenti sul medesimo tema e analizzare il problema delle barriere paese per paese. Qui invece non viene analizzato un campione significativo per ogni nazione, ragione per cui il lavoro non dovrebbe, a mio avviso, essere considerato il punto di riferimento assoluto del settore.”
“Un altro difetto è rappresentato dal fatto che il lavoro è orientato alla “public health” e fa riferimento ai dati cosiddetti “di routine”, ma in medicina vale la legge che è necessario possedere tutte le informazioni che riguardano a storia sanitaria dell’individuo per poterle analizzare dal punto di vista statistico. Pertanto il problema delle barriere andrebbe affrontato in tutti i settori della raccolta di dati clinici, e non solo in un settore o per una specifica finalità.”
Barriere tecniche, anzitutto
Il primo problema, quando si parla di condivisione dei dati della salute, è che questi dati molto spesso non ci sono, o perché manca la struttura sanitaria in grado di pianificare una raccolta o perché questa esiste ma non funziona a dovere. E non serve certo spingersi nel continente Africano o nel Sud Est Asiatico. “Forse ci stupirà sapere che in Europa abbiamo solo il 2-3% dei dati sanitari che servirebbero – afferma Gaddi – e questa percentuale rappresenta non i dati potenzialmente disponibili, ma quelli che vengono effettivamente raccolti dai sistemi sanitari locali.”
La seconda barriera evidenziata nello studio è quella del linguaggio. “Non è una questione banale, dal momento che anche solo limitandoci all’Europa, vi sono alcuni paesi in cui l’inglese è parlato da grossa parte della popolazione e rientra da anni nei programmi d’istruzione degli operatori sanitari, mentre in altri paesi la cosa non è così scontata”.
Così come quella che viene definita “barriera motivazionale” degli operatori del settore, che spesso non vengono educati sul tema e perciò rivelano un’opinione critica a priori della condivisione dei dati riguardanti i pazienti.
In terzo luogo, la questione del formato e della leggibilità dei dati, che devono essere non solo fruibili, ma anche riutilizzabili da attori che non sono quelli che li hanno prodotti. “Non basta pubblicare pagine e pagine in formato *.pdf, servono informazioni che possano davvero essere condivise, e non solo per costruire mappe, grafici e tabelle da rimaneggiare per elaborazioni statistiche”.
Infine, la barriera forse più dirimente: la mancanza dei metadati. “I dati da soli non servono – incalza Gaddi – servono le informazioni, e per inquadrare un’informazione è necessario che il dato numerico sia affiancato, completato, significato dal metadato, e descritto nel suo contesto. Spesso mancano anche le basi per una comparazione efficace dei dati, o, appunto, mancano le informazioni che permetterebbero di definire davvero lo stato di salute (o altro) del cittadino e di descrivere “cosa, come, dove, quando, chi” viene descritto da quel dato grezzo.” In altre parole in molti casi pur possedendo i numeri è difficile per chi fa statistica stabilire l’univocità del dato e quindi confrontarlo con altri.
Barriere etiche e legali: insomma, la privacy
Il rispetto della privacy dell’individuo è una questione etica, anzitutto, ma diventa immediatamente un aspetto legale dal momento che gli individui di cui si raccolgono, si utilizzano e si condividono i dati sono prima di tutto cittadini di una nazione. “Oggi chi si occupa di eH data sharing non può assicurare un uso eticamente corretto del dato, e cioè la garanzia che la condivisione e il riuso di queste informazioni porteranno un beneficio alla persona che ha prodotto il dato, cioè il paziente, e lo faranno con il suo consenso.” Oltre all’eterno problema del controllo che le informazioni non finiscano in mano a persone o enti non autorizzati a trattarli e quindi utilizzate per scopi non affini al miglioramento della salute pubblica.
I limiti economici e politici
Per quanto riguarda le barriere economiche, il problema si può riassumere nel seguente binomio: assenza di risorse per favorire lo sviluppo di queste pratiche e la paura di possibili danni economici. Sì perché non è proprio opinione condivisa da tutti che condividere liberamente i dati faccia bene all’economia. “Non bisogna dimenticare – prosegue Gaddi – che c’è chi i dati li vende, traendoci evidentemente del profitto. Certo, questo ‘mercimonio’ confligge con la privacy dell’individuo e con il principio secondo cui il proprietario ultimo del dato è il soggetto stesso, ma non è tutto così semplice per un legislatore che si pone con uno sguardo sovranazionale. La legittimità di questa pratica dipende infatti anche dalle specifiche leggi nazionali. Un passo avanti verrà certamente mosso con la pubblicazione delle linee guida europee sulla privacy, prevista per la primavera 2015.”
Le barriere economiche dipendono anche dalle barriere politiche: assenza di linee guida globali sulla condivisione dei dati, non solo sanitari, e la mancanza di una strategia generale per l’e-health che coordini le singole amministrazioni, anche solo a livello nazionale. “Un data sharing efficace e completo non è certo dietro l’angolo, obiettivi come questi sono ancora lunghi a venire – racconta Gaddi – e ad oggi non sembrano essere nelle corde né dei governi né dell’Europa. Al momento a Bruxelles è iniziata una riflessione critica sulla digitalizzazione, che per alcuni è uno slogan e non un progetto concreto e implementabile dai governi.
Troppo entusiasmo diventa un problema
E intanto dall’altra parte di un’ipotetica barricata vi è chi fa del data health sharing una bandiera, nella ferma convinzione che i dati vadano condivisi sempre e comunque, liberamente e con tutti. Una posizione che, commenta Gaddi, in realtà è assai problematica e per nulla volta all’abbattimento delle barriere attualmente esistenti. “Questi technoenthusiastics rischiano di costituire essi stessi una barriera e un limite per la costruzione di una struttura solida per l’e-health perché dimenticano un aspetto fondamentale della scienza in generale e della medicina in particolare, e cioè che tutto ciò che tocca la salute dell’uomo deve essere sottoposto a sperimentazione e verifica, ragionando a ‘due code’: ammettendo quindi che quel che si fa possa migliorare, ma anche che esso non serva a nulla, o addirittura peggiori lo stato di salute delle persone coinvolte. Assumere a priori e in modo acritico la validità del eH data sharing non dovrebbe essere considerata insomma automaticamente una buona pratica, ma sottoposto a verifiche stringenti”.
“Oggi discutere di data sharing non dovrebbe consistere nel proporre acriticamente le proprie opinioni, l’atteggiamento cioè dei cosiddetti ‘tecnoentusiasti’, o imporre le proprie decisioni, che è quello che fanno i governi, ma cercare di mettere ordine individuando barriere, limiti, problemi, fraintendimenti, prima ancora di mettere nero su bianco una strategia concreta.” spiega Gaddi. “Molti governi ancora oggi non sanno quello che fanno e l’Europa, che dovrebbe fornire una direzioni a tutti confrontandosi con le realtà locali, utilizza invece la digitalizzazione come uno slogan, o media acriticamente tra le proposte dei singoli governi. E intanto sono pochi quelli che cercano di sviluppare modelli di previsione dei risultato o di attivare reti per la verifica in tempo reale degli esiti dell’eH sulla salute. Ci vorrà ancora molto lavoro e l’azione congiunta di tutti gli stakeholders. Senza dimenticare che si dovrebbe fare innazitutto scienza, e il metodo per capire se e come potenziare il data sharing e in particolare l’e-health, deve essere il metodo scientifico, quello che per dirsi tale supera la prova della corroborazione sperimentale.”
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