ricerca

“Serve una politica scientifica e dell’università”

L'ANVUR raccontato dai membri di Roars, che commentano le politiche della ricerca italiane e identificano i punti critici

Logo-Home-Page-910x1174
APPROFONDIMENTO – Roars è uno spazio in cui docenti e ricercatori scrivono di politiche della ricerca e dell’università. L’obiettivo del blog, il cui acronimo significa Return On Academic ReSearch, è contribuire ad “avviare la costruzione di un network di soggetti che lavorano nell’università e nella ricerca (…), superando gli steccati disciplinari che negli ultimi decenni hanno contribuito non poco a indebolire la voce di chi ha a cuore il sistema della ricerca nazionale”, come si legge sul sito. L’ANVUR, l’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca, è tra i temi che godono di maggiore spazio. Abbiamo chiesto a due dei fondatori e redattori di Roars quale fosse la loro posizione sull’ente che ha il compito di analizzare l’università italiana e i suoi prodotti.

“Serve una politica scientifica e dell’università”
“In questo momento la cosiddetta quota premiale è una parte del Fondo di finanziamento ordinario che viene drenata dalle università più deboli per darla a quelle più forti. È l’ANVUR a decidere che cosa è debole e che cosa forte, in base ai suoi criteri – sintetizza Francesco Sylos Labini, astrofisico che lavora al Centro Studi e Ricerche Enrico Fermi di Roma – Non abbiamo bisogno di questo, ma di intraprendere una politica scientifica e dell’università. Per fare un esempio concreto: non serve avere la clinica oftalmica migliore del mondo a Torino e tutto il resto del sistema sanitario a pezzi. È invece utile avere un Ssn che sia mediamente di buon livello perché se una persona ha un problema di salute a Messina deve poter trovare un ospedale adeguato. Questa è l’università che ci serve. Per raggiungere questo obiettivo non bisogna pensare in termini di premialità, di eccellenza, ma in termini strutturali di politica scientifica. Occorre cercare di aiutare le situazioni che sono in sofferenza, invece di chiuderle”.

Il problema è che nel nostro Paese le risorse per il ‘premio’ vengono pescate dallo stesso contenitore in cui si trovano quelle per la gestione ordinaria delle università e dei programmi di ricerca e chi ‘vince’ si ritrova, nei fatti, a perdere un po’ di meno. Esistono dei meccanismi di bilanciamento che prevedono che le quote (aggiunte o tolte) non possano superare il 5% di quanto si è ricevuto l’anno precedente, ma secondo alcuni queste misure non risolvono il problema dei soldi che non sono abbastanza.

“Una valutazione inoltre non è mai neutra, ma perturba l’oggetto che deve esere valutato – nota Sylos Labini – Per questo è un’operazione molto delicata, che va compiuta senza stravolgere il lavoro dei ricercatori”. Anche Giuseppe De Nicolao, professore all’università di Pavia, accende i riflettori sul nodo della conformità della ricerca, che esiste quando si viene valutati: “Questo rischio si corre quando uno studioso viene incentivato a occuparsi di ciò che è considerato più promettente dai suoi colleghi e non dalla scienza. Accade anche in altri Paesi europei e per esempio nel Regno Unito è una pratica molto criticata. Se c’è una ‘moda’, è possibile che io mi allinei con questa perché so che sarò premiato, mentre invece il vero spirito scientifico ha sempre una certa dose di eresia e di rischio”.

“Non bisogna pensare in termini di premialità, di eccellenza, ma in termini strutturali di politica scientifica. Occorre cercare di aiutare le situazioni che sono in sofferenza, invece di chiuderle.” Crediti immagine: CollegeDegrees, Flickr

Ente tecnico, non politico
“L’ANVUR dovrebbe essere un ente tecnico, ma alcune dichiarazioni dei membri del suo consiglio direttivo sono politiche e si basano su considerazioni personali, non su dati di fatto”. L’affondo di De Nicolao parte da alcune considerazioni riportate anche su Roars sul numero di docenti e sulle università del Sud Italia. “Nel 2012 un membro del Consiglio direttivo in un’intervista delineava qual era lo scopo della Vqr, la valutazione della qualità della ricerca: fare delle classifiche in base alle quali distinguere tra teaching university e research university. Cioè atenei di serie A che fanno ricerca e altri di serie B dove viene svolto solo l’insegnamento. Questa è una linea ispiratrice molto forte in Italia che va nella direzione del downsizing dell’università”, un ridimensionamento attuato con lo scopo di aumentare la competitività.

“In tutto questo il MIUR è assente in maniera imbarazzante – aggiunge De Nicolao – Apparentemente l’ANVUR dovrebbe essere un’agenzia tecnica, che compie le sue valutazioni. Nella pratica però gli esiti su chi è meglio o peggio hanno l’effetto di ridisegnare l’offerta formativa, la ridistribuzione di risorse sul territorio nazionale in maniera molto forte e le linee programmatiche sono in assoluta continuità con chi pensa che la priorità sia un downsizing dell’università italiana”.

Sylos Labini sposta l’attenzione sui parametri di valutazione, a suo giudizio inadeguati: “Non si è tenuto conto dell’esperienza di altre Nazioni e si sono accentrate in un unico organismo una serie di funzioni che altrove sono divise – osserva il docente – I criteri, poi, lasciano molto a desiderare. Uno su tutti: l’uso della bibliometria in modo automatico, che implica il fatto che, per avere tante citazioni, devo avere tanti amici. Un ricercatore dovrebbe quindi lavorare al consenso e la conseguenza è il soffocamento delle idee più innovative. Senza contare che un sistema basato su questi parametri penalizza i colleghi più giovani e chi pubblica pochi articoli”. Un esempio concreto: “Nel mio campo, l’astrofisica, ci sono ricercatori che costruiscono satelliti e telescopi. Quando pubblicano un lavoro, lo firmano in moltissimi e possono farne uscire un certo numero all’anno. Io sono un teorico, lavoro con quattro collaboratori e ho all’attivo 3-4 pubblicazioni l’anno. Non è una questione di bravura, semplicemente non ha senso il concetto di paragone”.

Scivoloni?
“Nel 2012 l’Agenzia doveva fare una lista delle riviste scientifiche per valutare i docenti per le abilitazioni – ricorda De Nicolao – Ebbene, in questi elenchi è finito di tutto, dal Sole 24 Ore al Mattino di Padova, dalla rivista di Banca Etruria ad Airone, passando per una pubblicazione di suinicoltura, classificata non per agraria, ma per scienze economiche e statistiche. Noi di Roars avevamo raccontato la vicenda, che è stata ripresa anche da alcuni giornali nazionali. A livello internazionale, il Times Higher Education ci ha dedicato un lungo articolo. Questo dà l’idea di un’agenzia che ha grosse falle dal punto di vista tecnico”.

La risposta dell’Agenzia, a detta dell’esperto, avrebbe lasciato molto perplessi, perché scaricava la responsabilità sui docenti. “Di fatto l’ANVUR ha puntato il dito contro i docenti, colpevoli di aver archiviato questi articoli nei propri curricula scientifici. Si tratta di una risposta imbarazzante perché il compito dell’agenzia era proprio quello di capire che cosa era scientifico e cosa no in questi cv elettronici. Senza considerare il fatto che da molti anni ormai si parla di terza missione: i docenti universitari oltre alla didattica e alla ricerca devono confrontarsi anche con l’impatto sociale nei confronti del loro lavoro. A mio avviso è molto giusto che gli studiosi escano dalla loro torre d’avorio e intervengano anche sulla rivista di suinicoltura. Questo ha un peso tendente a zero per la valutazione scientifica, mentre ne ha uno importante per la valutazione della capacità di quel docente di interagire con la società”.

L’altro tema ‘caldo’ riguarda le nomine in seno al Consiglio direttivo dell’Agenzia. Un nome molto criticato è stato quello di Paolo Miccoli, tra i maggiori chirurghi italiani, specializzato nella tiroide e docente all’università di Pisa. Al professore si imputa il plagio: “Nel suo tema programmatico ha inserito dei pezzi non virgolettati presi da altre fonti non citate – ricorda De Nicolao – Eppure siede nel Consiglio direttivo dell’Agenzia”.

Quali soluzioni
Quali sono dunque le proposte alternative, per un modello che secondo Roars non funziona come dovrebbe? “Innanzitutto non è necessario stilare delle classifiche – sostiene De Nicolao – Il modello inglese, che pure è molto competitivo, fa sì delle valutazioni, ma siccome stiamo parlando di atenei di dimensioni diverse, è impossibile fare una classifica che li metta a confronto. Alcuni Paesi, come per esempio l’Olanda, usano la valutazione non per distribuire fondi, ma solo in forma reputazionale. Una valutazione positiva è qualcosa di talmente potente che i suoi effetti si possono avere anche senza distribuire fondi, ma con la semplice informazione dell’opinione pubblica, che andrà a influenzare il numero di iscritti e più in generale l’attrattività di quella università”.

Il secondo nodo riguarda le risorse: secondo i due docenti la competizione dovrebbe essere fatta sui singoli progetti di ricerca, con la partecipazione a bandi pubblici, ma “non ha senso fare delle gare quando le risorse non sono sufficienti per l’ordinaria amministrazione”. “La mia speranza – conclude Sylos Labini – è che a un certo punto l’accademia, che lavora con grande difficoltà ambientale ma riesce ancora a fare delle cose ragionevoli, rialzi un po’ la testa e trovi la forza per reagire”.

Leggi anche: Le eccellenze della ricerca europea: Germania e Inghilterra

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Condividi su
Michela Perrone
Appassionata di montagna e di tecnologia, scrivo soprattutto di medicina e salute. Curiosa dalla nascita, giornalista dal 2010, amo raccontare la realtà che mi circonda con articoli, video e foto. Freelance dentro e fuori, ho una laurea in Comunicazione e un master in Comunicazione della Scienza.