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Più carbonio e meno correnti nelle acque paleoceaniche

Due studi dimostrano che durante l'ultima era glaciale le acque oceaniche circolavano più lentamente del previsto, con importanti conseguenze sul ciclo del carbonio.

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Studiare il ciclo del carbonio presente negli antichi oceani può aiutare a comprendere i cambiamenti climatici. Crediti immagine: Psammophile, Wikimedia Commons

RICERCA – Occhi puntati sugli oceani antichi e sul loro contributo al ciclo del carbonio nell’ultimo numero di Nature Communications, che pubblica due articoli mirati proprio ad analizzare l’accumulo del carbonio nelle acque oceaniche di 20 000 anni fa. I risultati restituiscono un’immagine diversa da quanto precedentemente ipotizzato. Al culmine dell’ultima era glaciale la circolazione di calore, nutrienti e composti del carbonio era molto più lenta del previsto, permettendo un accumulo di carbonio maggiore e più duraturo rispetto agli oceani moderni.

Perché studiare il ciclo del carbonio del passato? Innanzitutto, per il ruolo fondamentale che questo elemento riveste nelle variazioni climatiche globali dato che la COè uno dei principali gas serra. Inoltre, poter ricostruire i cambiamenti climatici del passato è fondamentale per comprendere perché il clima di oggi è proprio così e come si evolverà. Studiare come si sono evoluti gli equilibri del carbonio tra atmosfera, geosfera e idrosfera, quindi, permetterà di capire come il pianeta Terra potrebbe rispondere alle influenze che le attività umane hanno in questo importante ciclo geochimico. Due gruppi dell’Università di Cambridge hanno analizzato proprio questo equilibrio durante l’ultima era glaciale, circa 20 000 anni fa, sfruttando l’effetto “memoria” dei sedimenti marini. Il carbonio, infatti, viene incorporato negli oceani attraverso gli organismi marini sotto forma di carbonato di calcio (che costituisce il guscio degli organismi che ne sono provvisti) o di carbonio organico. Alla morte di questi organismi i detriti, e il carbonio in essi contenuti, raggiungono le profondità marine dove possono restare “intrappolati” anche per migliaia di anni, fornendo una fotografia delle condizioni climatiche e ambientali del momento in cui si sono formati.

I ricercatori inglesi sono riusciti a condurre analisi isotopiche proprio su gusci di protozoi foraminiferi risalenti a 20 000 anni fa, ottenendo informazioni preziose sul percorso e l’intensità delle paleocorrenti e sulla quantità di carbonio immagazzinata nell’Oceano Atlantico. I due studi (che potete trovare qui e qui) giungono a conclusioni simili: le fredde acque profonde del paleoceano Atlantico circolavano a velocità molto inferiori rispetto a quelle odierne ed erano in grado quindi di immagazzinare più carbonio per più tempo.

“Durante l’arco temporale che stiamo considerando” spiega Emma Freeman, autrice di uno dei due studi, “grandi quantità di carbonio venivano trasportate dalla superficie alle profondità oceaniche da organismi che morivano, affondavano e si dissolvevano. Questo processo portava al rilascio del carbonio contenuto in questi organismi nelle acque oceaniche profonde, dove poteva restare intrappolato per migliaia di anni a causa di una circolazione molto lenta”. La ricerca, come specifica la stessa Freeman, si riferisce ad un periodo di tempo dove l’intero pianeta era molto più freddo di quanto lo sia adesso. Tuttavia, capire le dinamiche della circolazione oceanica del passato e il loro effetto nei cicli geochimici è utile per capire le dinamiche odierne e il loro effetto nel cambiamento climatico.

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