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La fertilità è scritta (anche) nei nostri geni

12 loci del nostro genoma sono associati all’età al primo figlio e al numero totale di figli che avremo. Siamo "programmati" dai nostri geni? No, ma conoscerli ci aiuterà a comprendere meglio fertilità e infertilità

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Il punto di partenza del progetto è stato rendersi conto che l’età al primo figlio e il numero totale dei figli sembravano trasmettersi. Crediti immagine: Pixabay

SCOPERTE – Al giorno d’oggi molti fattori influiscono sul diventare genitori. Ci sono la carriera, la vita di coppia, la situazione socioeconomica e non ultime la salute, la fertilità. Ma secondo un nuovo studio, appena pubblicato su Nature Genetics, quest’ultima è scritta (anche) nei nostri geni: un gruppo di ricerca internazionale, con oltre 250 scienziati tra epidemiologi, bioinformatici, statisti ed esperti di infertilità, ha identificato 12 aree del genoma umano associate all’età alla quale donne e uomini hanno il primo figlio, e al numero totale di figli che avranno nel corso della vita. I fattori sociali e le decisioni personali rimangono al primo posto, non siamo “progettati” per avere un certo numero di figli, ma anche la genetica gioca un ruolo importante.

La meta-analisi, coordinata dai ricercatori del progetto Sociogenome all’Università di Oxford, ha esaminato 62 diversi dataset con dati su uomini e donne provenienti da tutto il mondo. “Siamo andati alla ricerca dei geni associati all’età al primo figlio e al numero totale di figli, lavorando su dati che riguardano sia la genetica che il comportamento riproduttivo”, spiega a OggiScienza Nicola Barban, ricercatore all’Università di Oxford e primo autore dello studio. “Abbiamo cercato di includere un campione il più grande ed eterogeneo possibile, per trovare delle associazioni genetiche che fossero robuste in diverse popolazioni. Così abbiamo scoperto 12 varianti genetiche che giocano un ruolo nello spiegare l’età al primo figlio e il numero figli, alcune delle quali sono coinvolte in meccanismi legati proprio al comportamento riproduttivo. Ad esempio l’età della donna al primo menarca e quella alla menopausa, ma anche varianti associate a geni che hanno un ruolo nell’endometriosi o nella sindrome dell’ovaio policistico”.

Grazie all’avvento di sofisticate tecniche molecolari, specialmente nell’ultimo decennio, quest’area di ricerca ha fatto grandi passi in avanti. I primi studi sull’ereditarietà si basavano soprattutto sullo studio dei gemelli in modo da capire, attraverso apposite tecniche statistiche, quale parte della variabilità di un tratto (o di una patologia) potesse essere spiegata con la genetica. “Tali studi sono fondamentali in questo senso, ma non ci dicono nulla su quali geni sono responsabili delle differenze genetiche tra le persone. Negli ultimi anni le misurazioni sono diventate via via meno costose ed è diventato possibile raccogliere dati su un milione di diverse varianti genetiche, quindi fare studi molto più robusti. In quest’ultimo lavoro, ad esempio, abbiamo cercato di capire quali specifici geni potessero dirci qualcosa sul ruolo genetico e biologico delle diverse variazioni”, dice Barban.

Questo tipo di ricerca è noto come studio di associazione genome-wide (genome-wide association study, GWAS), uno studio che indagando una grossa porzione dei geni di diversi individui cerca di stabilirne le varianti genetiche, per poi associare queste diversità ai tratti di interesse. In questo caso, l’età al primo figlio e il numero di figli.

“In precedenza ci si era focalizzati molto sulle condizioni cliniche legate all’infertilità”, prosegue Barban. “Noi abbiamo avuto un approccio più da scienziati sociali, se vogliamo, concentrandoci sul comportamento riproduttivo come qualcosa che dipende sia dalla biologia che dalle decisioni personali, dal comportamento. Per i sociologi e i demografi queste sono due delle variabili più usate. In questo modo siamo riusciti a includere nella meta-analisi un maggior numero di studi, aumentando la dimensione del campione e includendo sia donne che uomini. Molti degli studi precedenti riguardavano la fertilità femminile, mentre per gli uomini la maggior parte dei dati derivava dall’analisi di campioni di sperma. Per un campione così selezionato è difficile avere informazioni, quindi abbiamo fatto un passo indietro: abbiamo usato i dati di studi clinici legati al DNA, in cui erano state raccolte anche le caratteristiche demografiche per tutti i partecipanti”.

Le varianti genetiche identificate spiegherebbero, in realtà, meno dell’1% dell’età in cui uomini e donne hanno il primo figlio e del numero di figli che avranno nel corso della vita. “Questo non significa che meno dell’1% è spiegabile dalla genetica, ma che siamo riusciti a identificare il ruolo genetico dell’1% di quella variabilità”, precisa Barban. “Il punto di partenza dell’intero progetto Sociogenome è stato rendersi conto che l’età al primo figlio e il numero totale dei figli sembravano trasmettersi: quando abbiamo scoperto che non si trattava solo di un aspetto sociale, ma che c’era una componente genetica attestata tra il 15 e il 40%. Questo ci ha motivati a cercare i geni responsabili. La percentuale può variare anche di molto e non è legata solo alla genetica: se aumentano le costrizioni sociali legate all’avere figli in età avanzata, diminuisce il peso della componente genetica. O ancora, persone nate in popolazioni diverse e differenti condizioni sociali avranno anche un’ereditarietà diversa”.

Un altro aspetto interessante è che la maggior parte della componente genetica identificata dai ricercatori è condivisa tra uomini e donne. Gli stessi geni che influenzano a quale età una donna avrà il primo figlio (e quanti figli avrà) sono gli stessi a influenzare i medesimi aspetti negli uomini. Nonostante questo, nelle donne in particolare la fertilità è legata a doppio filo con l’età: alcune possono avere figli fino a un’età avanzata, mentre altre iniziano a diventare meno fertili molto prima. Sappiamo ancora poco su quali fattori influenzino questa differenza, ma studiarla a livello genetico potrebbe permettere, in futuro, di identificare questa “finestra fertile” così soggettiva. E di fare passi in avanti nelle nostre conoscenze sull’infertilità.

In tutti i paesi occidentali la natalità è in calo e si fanno figli sempre più tardi. L’Italia, come mostrano i dati ISTAT (e come ci ha ricordato il Fertility Day promosso dal Ministero della Salute, con relative polemiche) lo sa bene: nel 2015 le nascite sono diminuite di 15.000 unità, arrivando a un totale di 488.000. Il primo parto avviene in media a 31,5 anni, con 1,35 figli per donna. “In un contesto del genere, la differenza genetica nello spiegare la fertilità è sempre più importante. Un giorno studi come il nostro potrebbero permetterci di capire se siamo più a rischio di infertilità anticipata”, commenta Barban.

Studiare la genetica insieme ai comportamenti di tipo sociale è infatti un approccio sempre più diffuso. L’idea di un singolo “gene responsabile” per tratti o malattie è raramente sensata, al di fuori ad esempio di particolari patologie ereditarie. “Nella maggior parte dei casi si tratta di centinaia, migliaia di geni che contribuiscono a spiegare un aspetto come il comportamento. Combinando tutti i risultati genetici in una variabile unica si riesce, ad esempio, a spiegare una certa propensione genetica per l’età al primo figlio, e a usarla per stabilire come interagisce con fattori di tipo sociale”.

Il progetto Sociogenome è partito proprio con l’obiettivo di studiare la gene-environment interaction, ovvero come la genetica interagisce con l’ambiente e i fattori sociali. “Quando abbiamo iniziato il lavoro, quattro anni fa, ci siamo resi conto che l’aspetto genetico non era poi così chiaro. Quindi abbiamo fatto un passo indietro. Al momento abbiamo diversi progetti in cantiere: il primo è includere negli studi un campione sempre più grande, ma anche ottenere più dati sui cromosomi X e Y e informazioni dettagliate per aumentare quell’1%. La maggior parte dei progetti continuerà comunque a essere legata all’interazione tra fattori sociali e genetica”.

@Eleonoraseeing

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".