Il ruolo dei virus nel diabete di tipo 1
Osservato già al tempo degli antichi Egizi, del diabete di tipo 1 sappiamo ancora molto poco. Federico Paroni, alla University of Bremen, studia il rapporto di questo tipo di diabete con i virus.
RICERCANDO ALL’ESTERO – “I virus sono organismi molto piccoli, il loro genoma può avere solo 7000 paia di basi, eppure riescono a stravolgere completamente tutto il macchinario della cellula, sfuggendo in molti casi ai suoi controlli. La cosa affascinante è che la cellula non rimane statica a subire l’insulto, ma risponde in maniera dinamica in modi che noi nemmeno immaginiamo”.
Nome: Federico Paroni
Età: 42 anni
Nato a: Bertiolo (UD)
Vivo a: Brema (Germania)
Dottorato in: medicina biomolecolare (Trieste)
Ricerca: Studio delle infezioni virali nel pancreas di pazienti diabetici attraverso sonde fluorescenti
Istituto: Centre for Biomolecular Interactions, University of Bremen (Germania)
Interessi: suonare la chitarra, fare giri in vespa e moto, correre, disegnare.
Di Brema mi piace: la gente accetta tutti, nei ristoranti i senzatetto si siedono al tavolo come qualsiasi altra persona.
Di Brema non mi piace: manca il giallo, a partire dal sole.
Pensiero: Eat, drink and be merry, for tomorrow we die. You can be as careful as you want, but you’re going to die anyway, so why not have fun? (Lemmy Kilmister)
Il diabete è un insieme complesso di malattie con cause, sintomi, sviluppo e genetica molto diversi. Esiste il diabete di tipo I, considerato autoimmune e caratterizzato dalla distruzione delle cellule beta del pancreas, quelle che producono l’insulina; il diabete di tipo II, dovuto a un difetto nella secrezione di insulina; il diabete gestazionale, che si manifesta con un alterato metabolismo del glucosio ma solo in gravidanza.
Le cause di questa malattia sono ancora sconosciute. Per il diabete di tipo I, tra gli agenti scatenanti, ci sono i virus.
Qual è il ruolo dei virus nello sviluppo del diabete di tipo I?
La storia del diabete è complicata e inizia con un papiro egizio del 1500 a.C. in cui veniva descritta una malattia caratterizzata da molta sete. La frequenza con cui i pazienti bevevano era un sintomo talmente importante che la medicina greca ha introdotto il termine diabete, ovvero sifone. Oggi sappiamo molte cose sul diabete ma, in più di 3500 anni, ancora non si è capito cosa causa questa patologia.
Alcuni studi fatti all’inizio del ‘900 parlano di epidemie diabetiche che seguivano a epidemie virali di parotite, morbillo, ecc: nonostante tutti gli esperimenti, però, non c’era traccia di questi virus nei pazienti diabetici anche se rimaneva l’evidenza di una relazione tra i due fattori, supportata dal fatto che le regioni mondiali a maggiore diffusione di alcuni virus coincidevano con le zone ad alto numero di casi di diabete.
Ancora oggi non si conosce né il virus coinvolto né il meccanismo di attivazione del sistema immunitario né come avviene l’apoptosi (cioè la morte cellulare) delle cellule beta del pancreas. Sicuramente non c’è un unico fattore scatenante ma piuttosto un’interazione di diverse cause.
Qual è il virus candidato più probabile?
Nei nostri esperimenti abbiamo preso in considerazione gli enterovirus appartenenti alla famiglia dei Coxsackie, che danno infezioni comunissime ma sono i primi sospettati come agenti scatenanti del diabete.
Abbiamo studiato l’infezione di due membri della famiglia, uno considerato diabetogenico (il B4) e l’altro no (il B3), e abbiamo visto che attaccano cellule bersaglio diverse: B3 infetta le cellule beta del pancreas, che muoiono per apoptosi, mentre B4 infetta sia le cellule beta sia le alfa, sebbene con un meccanismo molto più lento. Normalmente, durante il diabete, il sistema immunitario non attacca le cellule alfa del pancreas: un’ipotesi che abbiamo fatto è che, una volta entrato in questo tipo di cellule, il virus rallenti la sua replicazione, entri nella fase latente del ciclo vitale ma riesca comunque a mantenere un serbatoio virale che potrebbe infettare le cellule beta e scatenare il sistema immunitario.
La grossa novità dei nostri risultati sta nel fatto che abbiamo dimostrato come due virus appartenenti alla stessa famiglia infettino tipi di cellule diverse.
Siamo anche andati a indagare i meccanismi di riconoscimento tra virus e cellule pancreatiche, soprattutto per quanto riguarda la cinetica delle interazioni tra ospite e genoma virale (i Coxsackie sono virus a RNA a singolo filamento). In letteratura è noto che il primo contatto con la cellula bersaglio avviene grazie a recettori extracellulari detti CAR che ancorano il virus e lo inglobano per endocitosi. Negli endosomi, il virus è ancora tutto impaccato ma sembra che variazioni di pH favoriscano l’apertura del capside e il rilascio del genoma. A questo punto, i sensori presenti nelle cellule beta riconoscono l’RNA virale e attivano le vie di segnalazione intracellulare che regolano l’espressione genica della cellula.
Quali sono i sensori coinvolti nell’infezione delle cellule beta?
Con grande sorpresa, abbiamo visto che il primo recettore a riconoscere il genoma virale è una proteina di membrana chiamata TLR3 (toll-like receptor 3), inglobata assieme all’endosoma. La sorpresa sta nel fatto che TLR3 è sempre stato considerato marginale nell’infezione mentre il ruolo protagonista era assegnato a recettori citoplasmatici come MDA5 e RIG-I.
Tra l’altro TLR3 è una proteina che riconosce un doppio filamento di RNA mentre i Coxsackie sono a singolo filamento, risultato che non ci ha sorpreso ma piuttosto ci ha dato una chiave di lettura: la regione virale in cui avviene l’interazione, infatti, è ricca di strutture secondarie che evidentemente sono abbastanza grandi da farsi riconoscere come doppio filamento dal recettore.
Dopo il riconoscimento, TLR3 attiva l’espressione genica di tutti gli altri recettori canonici, come i citoplasmatici MDA5 e RIG-I, che a loro volta regolano la produzione delle citochine IFN (interferone) di tipo 1 e TNF alfa.
Siete riusciti a dimostrare la presenza del virus dentro alle cellule beta?
Il pancreas è un organo difficile da studiare, non è molto esposto e per ottenere dei campioni di tessuto bisognerebbe usare tecniche invasive. Generalmente si utilizzano campioni conservati in paraffina e messi su un vetrino, per cercare marcatori virali o proteine del capside. Il problema è che le coorti di studio a nostra disposizione risalgono a settanta anni fa e l’RNA potrebbe essere degradato, oltre al fatto che il virus potrebbe essere presente in fase latente e quindi produrre poche proteine.
La mia idea è stata di verificare direttamente la presenza del genoma virale attraverso un sistema di sonde, divise in sottogruppi da 40 oligonucleotidi e marcate con fluorofori diversi: se c’è interazione col genoma virale, compare un segnale il cui colore dipende dal sottogruppo di nucleotidi che si sono legati.
I nostri dati mostrano che questa tecnica è estremamente sensibile e specifica e, sulla prima analisi fatta completamente in cieco, è riuscita a individuare il virus in 7 pazienti su 8, discriminando perfino il tipo di Coxsackie. Sono risultati mai raggiunti prima con un’unica tecnica.
Inoltre, è emerso che in alcuni campioni il virus si trova disperso nella parte esocrina delle isole pancreatiche e non al loro interno a indicare che i serbatoi virali sono sparsi nella cellula e poi, col tempo, potrebbero attivarsi, infettare le cellule beta e stimolare la risposta del sistema immunitario.
Quali sono le prospettive future del tuo lavoro?
Secondo alcune ipotesi, non ci sarebbe solo un unico virus alla base del diabete ma una serie. Innanzitutto mi piacerebbe sciogliere questo dubbio; inoltre vorrei capire come l’infezione virale scatena il sistema immunitario. Si è visto che l’infezione modifica il pattern di una serie di microRNA e sembra che ciò sia in grado di influenzare la maturazione dei linfociti T helper e l’attivazione del sistema immunitario.
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