Cancro al seno: perché non risponde alla chemioterapia?
Un nuovo studio dell'Istituto Tumori di Milano ha individuato una nuova possibile concausa della peggiore reazione alla chemioterapia.
RICERCA – Di tumori al seno ce ne sono di molti tipi, ma quelli più aggressivi – in gergo “di più alto grado” – di qualsiasi categoria essi siano, hanno in comune lo stesso meccanismo che fa sì che il tumore non risponda alla chemioterapia come dovrebbe. Uno studio, pubblicato su Cell Reports da parte di un team dell’Istituto Tumori di Milano, ha individuato nel comportamento delle cellule mieloidi (cellule del sistema immunitario che appartengono alla famiglia dei neutrofili) una possibile concausa della peggiore reazione alla chemioterapia.
Già da tempo all’Istituto dei Tumori era stata dimostrata l’esistenza di un profilo ECM3, ovvero di geni che portano le informazioni per produrre la matrice extracellulare, cioè la parte dei tessuti posta al di fuori delle cellule. Questo profilo ECM3 è capace di individuare, tra i tumori di alto grado, quelli più aggressivi e non responsivi alla chemioterapia. Non era chiaro tuttavia il motivo per cui il profilo ECM3, che si riscontra nel 30% dei tumori al seno, fosse associato a una prognosi sfavorevole in questa tipologia di cancro. I ricercatori si sono chiesti se la presenza di ECM3 fosse in qualche modo correlata con alterazioni del sistema immunitario e, in particolare, delle cellule mieloidi. La risposta, in questa prima fase preclinica, è stata positiva: la matrice extracellulare gioca un ruolo chiave nel modulare la funzione delle cellule mieloidi che sono necessarie al tumore per essere più aggressivo e non rispondere alla chemioterapia.
“Il fenotipo aggressivo e resistente alla chemioterapia, e che nei topi dà luogo alle metastasi, dipende dalle cellule mieloidi che presentano in questo caso un comportamento pro-tumorale” spiega Sabina Sangaletti, responsabile della ricerca assieme a Mario Colombo. “Abbiamo dunque studiato l’efficacia dell’acido zoledronico, appartenente alla famiglia degli amminobifosfonati, utilizzato per la cura dell’osteoporosi, nel “riprogrammare” queste cellule da un comportamento pro-tumorale ad uno anti-tumorale o neutro. I risultati sono stati evidenti: grazie all’acido zoledronico le cellule tumorali, che non trovano più un supporto nelle cellule mieloidi, possono incorporare il chemioterapico e quindi essere uccise.”
Non è la prima volta che si studiano gli effetti dell’acido zoledronico sul tumore al seno, ma fino a oggi i ricercatori avevano ottenuto risultati contrastanti. “La ragione è che non tutti i tumori ne beneficiano, ma solo quelli più aggressivi e arricchiti in matrice” spiega Sangaletti. Si tratta da un lato di una linea di ricerca con enormi potenzialità, appunto perché non si focalizza su un unico sottotipo molecolare di cancro al seno, ma individua un bersaglio trasversale ai tumori di alto grado di tutte le classi. In questo contesto sarà utile poter riclassificare le pazienti anche per il profilo ECM3, così da indivuare quelle che possono beneficiare di un trattamento combinato con l’acido zoledronico o similari.
“Al momento, quindi, abbiamo ottenuto ottimi risultati in fase preclinica, abbiamo un farmaco già in uso e che potremmo riposizionare: non resta che iniziare la fase clinica” conclude Sangaletti.
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