Dobbiamo smettere di sottovalutare i cambiamenti climatici
Solo il 7% delle specie già colpite è considerato a rischio a causa del riscaldamento globale e di eventi climatici estremi. La review su Nature Climate Change
AMBIENTE – Il riscaldamento globale non è nel nostro futuro, sta succedendo ora. E gli effetti del cambiamento climatico sono già evidenti in quasi 700 specie tra uccelli e mammiferi, estremamente sottovalutati: è quanto emerso da una revisione pubblicata su Nature Climate Change che ha coinvolto anche l’Università La Sapienza di Roma, con il Global Mammal Assessment Program, e che ha analizzato i dati di 130 studi.
Tuttavia, solo il 7% dei mammiferi e il 4% degli uccelli che già risentono dell’aumento delle temperature è considerato a rischio a causa di eventi climatici estremi (threatened by climate change and severe weather) dalla Lista Rossa IUCN, l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, l’ente che valuta lo stato di conservazione degli animali.
Prendendo in considerazione il rapporto tra le risposte delle specie al clima -ad esempio l’indice di massa corporea- e tratti spaziali, come la variazione stagionale delle temperature nell’area di diffusione delle specie, gli scienziati hanno scoperto che il 47% dei mammiferi (su 873 specie) e circa il 24% degli uccelli minacciati (su 1272 specie) potrebbero già essere stati colpiti negativamente dal clima che cambia.
I mammiferi più a rischio a causa dei cambiamenti climatici non sono fossori, dunque specie che non trascorrono la vita scavando nel terreno, e “hanno una stagionalità ridotta delle precipitazioni all’interno del loro areale di distribuzione” spiega a OggiScienza Michela Pacifici del Global Mammal Assessment Program, prima autrice dello studio. Solo due degli 11 ordini considerati, i roditori e gli insettivori, sembrano in generale trarre benefici dal riscaldamento globale. I primati, ma anche l’infraclasse dei marsupiali e i proboscidati -che comprendono rispettivamente canguri, koala, opossum, vombati e tutte le specie di elefanti- mostrano invece le percentuali più alte a indicare effetti negativi.
Gli effetti negativi sugli uccelli, invece, sono stati generalmente predetti nelle specie che vivono ad alta quota, in areali dove la stagionalità delle temperature è ridotta. “Per entrambi i gruppi tassonomici, essere esposti ad ampie differenze nelle temperature atmosferiche negli ultimi decenni ha determinato risposte negative”.
Uno degli aspetti più difficili nel fare modelli di previsione sul cambiamento climatico è che non si può certo valutare ogni singola specie del pianeta, per cercare di capire come reagirà -o sta già reagendo- alle variazioni. Uno degli approcci più condivisi è scegliere delle specie chiave e lavorare sulle caratteristiche condivise che potrebbero applicarsi a modelli più “generali”. Eppure, ed è inevitabile, per alcuni gruppi abbiamo molte meno informazioni.
“Il limite maggiore è legato purtroppo ai finanziamenti e all’inaccessibilità di alcune aree”, dice Pacifici, “in cui c’è una ricchissima biodiversità ma è difficile andare a campionare. Inoltre, a volte è complicato discriminare tra gli impatti dovuti ai cambiamenti climatici e quelli legati ad altre minacce. Bisognerebbe cercare di concentrare i fondi su ricerche mirate al monitoraggio di specie che sono state identificate come vulnerabili, e soprattutto osservare gli effetti su di esse per un periodo più o meno lungo a seconda del loro tempo di generazione”, il periodo di tempo che trascorre tra due generazioni consecutive nella stessa popolazione.
Dalla revisione è emerso uno sbilanciamento anche dal punto di vista geografico. Le aree tropicali più ricche di biodiversità sono molto carenti in quanto a dati, mentre molti più studi si sono concentrati sulle aree considerate più sviluppate: Nord America, Europa e Australia.
“Non ci siamo occupati di analisi spaziali, quindi non siamo in grado di dire quali siano effettivamente le aree più colpite dai cambiamenti climatici, ma possiamo sicuramente affermare che anche in questi continenti -che si ritenevano meno esposti- abbiamo trovato molti esempi di impatti sulle specie”, commenta Pacifici. “Perciò ci aspettiamo che studi condotti ad hoc su aree ritenute più a rischio possano portare a risultati ancora più allarmanti”.
Esistono specie che stanno beneficiando, ma non sappiamo per quanto sarà così, dell’aumento delle temperature. È il caso dei pinguini delle Galapagos, che hanno accesso ad areali più ampi per cercare cibo e riprodursi, ma anche del pipistrello albolimbato, che ha esteso il suo areale in Europa del 400%. Tutte queste specie possono aiutarci nelle previsioni, dunque nelle azioni per proteggere altre specie che invece sono già minacciate?
“Sicuramente si, e in un duplice modo. Prima di tutto ci consentono di indirizzare meglio gli sforzi di conservazione. Se sappiamo che una specie, con determinate caratteristiche e livelli di riscaldamento globale noti, ha già beneficiato dei cambiamenti nel clima, possiamo trarre delle conclusioni utili per la pianificazione delle azioni di conservazione anche per specie con tratti simili. Inoltre, aver identificato le specie che stanno beneficiando dal cambiamento climatico o che potrebbero averne beneficiato può aiutare molto nello studio della potenziale espansione delle specie invasive”, una minaccia che va a braccetto con il clima che cambia. Temperature miti e stagioni più lunghe rendono la colonizzazione delle specie invasive una missione ancora più facile.
Una cosa è sicura, concludono gli scienziati nel paper: stiamo sottovalutando gli effetti del cambiamento climatico ed è fondamentale iniziare a prestare più attenzione a quelli che si stanno già verificando, qui e ora. Un approccio che dovrebbero abbracciare i governi, nel prendere decisioni sulle specie di competenza prima che sia troppo tardi, ma anche gli scienziati e i comunicatori. Che possono mandare un messaggio molto chiaro smettendo di parlare di cambiamenti climatici principalmente al futuro.
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