L’intelligenza delle api
Il libro del neurobiologo Randolf Menzel e del filosofo Matthias Eckoldt ci accompagna in un cervello grande come una capocchia di spillo, ma affascinante come un intero pianeta
“Dopo aver letto questo libro, il tal argomento per voi non avrà più segreti” è una frase spesso abusata, ma la prima che viene in mente a voler descrivere il nuovo libro del neurobiologo Randolf Menzel, scritto insieme al filosofo Matthias Eckoldt: “L’intelligenza delle api” (Raffaello Cortina Editore 2017, 328 pagine, 29 euro), edizione italiana di Die Intelligenz Der Bienen.
Menzel è una delle massime autorità quando si parla di api e la sua passione per questi insetti, insieme alla curiosità nello svelarne i segreti, permea ogni pagina. Un interesse nato sotto la guida di Martin Lindauer che, a sua volta, fu allievo del premio Nobel Karl von Frisch, premiato per le scoperte sulla danza “a otto” delle api – con la quale comunicano alle compagne distanza e direzione di una fonte di cibo -.
Il libro si articola in sei capitoli che nulla lasciano al caso non solo nell’esplorare il complicato mondo e la sofisticata anatomia dell’ape, ma anche nel chiarire come gli scienziati si siano a lungo arrovellati per studiare il suo microscopico cervello.
Come indagare la vita nella “città alveare” senza disturbare le attività in corso? Come chiedere a un’ape se riconosce un colore, studiare il modo in cui apprende o con il quale incamera le informazioni sulla strada per tornare a casa?
Ci troviamo, dopotutto, di fronte a un animale il cui cervello è grande appena un millimetro cubo e al cui interno si trova meno di un milione di cellule nervose. Se ancora oggi tanti aspetti di questo straordinario cervello ci sfuggono, Menzel ha vissuto in prima persona (e sperimentato nel suo laboratorio) tutte le rivoluzioni scientifiche che hanno permesso di dipanare parte della sua intricata matassa. Ad esempio il nuovo e per il tempo rivoluzionario metodo per l’elettrofisiologia scoperto dal gruppo di Friedrich Zettler nei 1972, che permetteva di colorare i neuroni che si stava misurando, facendo così corrispondere a quelle microscopiche cellule le misurazioni fatte in laboratorio.
“ […] coloravamo il neurone e preparavamo sezioni sottilissime del cervello dell’ape, che poi venivano fotografate sotto a un microscopio a fluorescenza e proiettate come diapositive, in modo che potessimo identificare la struttura.”
La descrizione pratica di queste operazioni, per il tempo all’avanguardia, fa quasi pensare a delle piccole opere d’arte. Oggi, ad esempio, sappiamo che in quel minuscolo cervello c’è il corpo fungiforme, una struttura incredibile che svolge un ruolo simile a quello che per noi umani ha la corteccia prefrontale. La sua variabilità tra le api che svolgono diverse funzioni ci ha mostrato chiaramente che anche per loro, come accade nel cervello di un essere umano, le esperienze fatte si traducono letteralmente nella struttura cerebrale.
Ma l’interesse di Menzel per la scienza non fu da subito veicolato dalle api. Appena dodicenne, nel 1952, si era messo in testa di costruire un laghetto artificiale, per poter osservare le creature che avrebbe attirato. Quel laghetto finì per diventare la casa di una colonia di alghe rosse, che diedero all’acqua la caratteristica colorazione, e lo scienziato in erba che era in lui lo portò a chiedere lumi al suo insegnante di biologia. “Magari qualcuno ci ha buttato dentro della vernice?!” fu la risposta.
Ma Menzel non si lasciò scoraggiare: armato del microscopio ereditato dal nonno (per lui lente d’ingrandimento sul mondo in ogni senso possibile) mise quell’acqua purpurea su un vetrino e rimase a bocca aperta: vi trovò non solo le alghe, ma una serie di organismi intenti a nuotare e fare capriole.
Oltre 250 pagine sulle api, i loro sofisticatissimi sensi e la colonia come “superorganismo” potrebbero far pensare che in questi insetti non vi siano più misteri da scoprire e che ogni aspetto della loro biologia, etologia e neurobiologia sia appianato e accettato con consenso. Non è così per molti aspetti, uno dei quali è la navigazione spaziale, nota dolente di un confronto con altri colleghi che, per Menzel, non è andato come sperava.
Diatribe spaziali e strutture affascinanti
I primi voli fuori dall’alveare sono, per le api, di pura esplorazione: non si posano su nessuno dei fiori che incontrano e tornano a casa “a mani vuote”, ricompensate solo da nuove conoscenze. Nel primo viaggio si allontanano di pochi metri (due o tre), poi ruotano di 180 gradi e osservano l’alveare da una nuova prospettiva, ovvero quella dalla quale lo vedranno rientrando da una spedizione alla ricerca di nettare. In seguito aumentano la velocità di volo e con essa la distanza percorsa e da quel momento, fino a meno di due decenni fa, per gli scienziati era pressoché impossibile monitorare gli spostamenti. Poi si è iniziato a usare i radar e la navigazione spaziale delle api si è schiusa di fronte ai loro occhi.
Come spiega Menzel, nel cervello dell’ape si realizza una sorta di mappa interna dell’ambiente: vi è la navigazione egocentrica, tramite la quale riferisce a se stessa tutti i punti notevoli di un luogo (e fa affidamento sulla strada percorsa) e quella allocentrica, nella quale si serve dei punti di riferimento (i landmark, come una montagna, una collina, un lago…) per far ritorno verso l’alveare.
Per anni lo scienziato si è chiesto se tutti questi metodi fossero a disposizione dell’ape per poter essere combinati, proprio come facciamo noi, in quella che prende il nome di “mappa cognitiva” (dal lavoro di ricerca sui ratti dello psicologo E. C. Tolman); si tratta di una memoria unica dell’ambiente, organizzata in modo sofisticato e da utilizzarsi alla bisogna con la massima flessibilità.
Lo scetticismo di molti colleghi, convinti che al centro della navigazione spaziale delle api vi siano l’orizzonte (immagazzinano un’immagine dell’orizzonte e, lontane dal nido, notano la deviazione rispetto alla memoria visiva e si spostano via via per ridurla fino ad azzerarla) o la memoria vettoriale (le api collegano vari punti notevoli del paesaggio con la loro integrazione del paesaggio, riconoscendo di esserci già passate e sfruttando tale informazione per tornare a casa) ha spinto Menzel a ideare, con i suoi collaboratori, una serie di esperimenti tramite i quali ha effettivamente provato che le api sarebbero dotate di questa cartina cognitiva.
Questi esperimenti, diffusamente spiegati nel libro, hanno dato il via a una controversia scientifica la quale, con profonda amarezza dello scienziato (che come ultima risposta si è sentito dire un “Come prima, non vi crediamo!”), non sembra aver portato al progredire delle scienze cognitive ma solo alla formazione di nuovi muri tra diversi punti di vista e interpretazione dei risultati.
Un solo aspetto di questo libro lascia l’amaro in bocca – perché è troppo breve! – : l’ultimo capitolo, “Api e ambiente”, nel quale Menzel racconta la sua personale esperienza con i neonicotinoidi, pesticidi ancora utilizzati e che rappresentano una grave minaccia per le api. Seppur ridotta, anche questa trattazione colpisce dritta al segno: l’azione di queste neurotossine è descritta in modo tale che possiamo quasi immaginare il sistema di trasmissione delle informazioni delle api “andare in tilt” e portarle, alla fine, a una morte immeritata.
Senza grossi giri di parole il neurobiologo ci racconta anche la sua prima e unica esperienza di collaborazione con l’industria dei neonicotinoidi, nata dalla necessità di usare strumentazione all’avanguardia ma costosa. I vincoli poco limpidi, i protocolli messi in discussione (per le scoperte scomode) e il divieto di divulgare quanto documentato, ovvero che anche in piccole dosi le sostanze testate compromettevano la navigazione delle api, mettono i brividi.
“Sapevo che si sarebbe lavorato alla produzione di sostanze che avevano conseguenze disastrose per le api, organismi che peraltro non rappresentano affatto un pericolo per le coltivazioni da proteggere. Erano a rischio anche altre specie?”
Una volta entrato in possesso delle apparecchiature necessarie, senza alcun vincolo Menzel ha potuto riprendere ad analizzare le sostanze “incriminate” (anche ora nel suo laboratorio c’è uno studio in corso) e documentare ad esempio come il tiaclopride e altri due neonicotinoidi influiscano negativamente sulla memoria più profonda delle api – quella formata nei primi voli di cui parlavamo poco fa – e anche sulle loro danze, usate per condurre altre compagne verso le fonti di cibo.
L’approccio di Menzel al tema è quello di uno scienziato forte dei suoi numeri e della sua passione, che nell’ultima pagina fa una vera e propria call to action. Invitandoci come consumatori a non sottovalutare il nostro potere e a non trascurare come il modo in cui spendiamo il denaro può influenzare le decisioni proprio a quei livelli alti rispetto ai quali, tendenzialmente, ci sentiamo impotenti.
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