ATTUALITÀ

A Trieste si promuove un modello condiviso per studiare gli oceani

Grazie a un dialogo tra diverse nazioni si cercherà di ampliare e rafforzare le conoscenze sui nostri mari, integrando le ricerche in mare aperto con quelle condotte nelle regioni costiere.

Il progetto Argo, a cui partecipa l’OGS di Trieste, ha previsto l’utilizzo di 4000 boe robotizzate, che raccolgono e trasmettono informazioni sulla temperatura e la salinità dei mari. Crediti immagine: OGS

ATTUALITÀ – “Conoscere maggiormente i nostri mari è il prerequisito fondamentale per la crescita dell’economia blu e per aumentare del 20% i blue jobs, obiettivo fortemente voluto dall’Unione Europea”, chiarisce Alessandro Crise, dirigente di ricerca dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS) di Trieste. Dal 30 maggio al 1 giugno a Trieste si fa il punto sullo stato di salute dei mari, in preparazione del G7 Scienza: summit che si svolgerà a Torino il 28 e 29 settembre.

Il meeting triestino – questo il titolo “Progettazione condivisa di un sistema efficiente e sostenibile per l’osservazione dei mari costieri nei paesi in via di sviluppo” – riunisce 15 esperti provenienti dai Paesi del G7 e da Paesi emergenti. I lavori sono coordinati dall’OGS e dal britannico National Oceanography Centre e vogliono contribuire all’agenda del G7  in tema di sostenibilità ambientale, nell’ambito dell’iniziativa G7 “Il futuro dei mari e degli oceani”, evidenziando il ruolo essenziale dell’osservazione di tutti i mari per la conoscenza dello stato di salute del cuore blu del pianeta: motore del clima e volano dell’economia.

“La volontà dell’Italia, in questo contesto, è porre la giusta attenzione anche sui mari regionali e sulle regioni costiere. Abbiamo infatti bisogno di una visione complessiva dello stato di salute degli oceani, per contribuire alla valutazione globale dell’ecosistema marino voluta dalle Nazioni Unite, il World Ocean Assessment”, continua Crise.

A oggi, conosciamo poco dei nostri mari. Condurre studi in mare aperto comporta ostacoli aggirabili, ma compiere ricerche in acque territoriali o di pertinenza economica esclusiva è tutt’altro che semplice, soprattutto per ragioni legali e di riservatezza. “Molte regioni marittime, inoltre, non appartengono a Paesi facenti parte del G7:  sarà quindi impossibile effettuare un’istantanea dell’oceano abbastanza precisa senza il coinvolgimento di Paesi terzi. A questi Paesi spesso non mancano solo la tecnologia e le strumentazioni adeguate, ma anche le competenze per poter gestire questi strumenti”, spiega Crise.

La soluzione più efficace è legata allo sviluppo di una procedura condivisa che prenda in esame non solo gli aspetti scientifici dell’oceano, ma anche quelli socio-economici. “Gli attori coinvolti non devono essere solo gli scienziati e gli stakeholder, ma anche i cittadini e i rappresentanti di quelle comunità che lavorano a contatto col mare, come i pescatori o i diver tecnici”, precisa l’oceanografo. L’invito rivolto ai rappresentanti presenti sarà quindi quello di coinvolgere eventuali Paesi idonei a questo tipo di ricerche, perché si possa avviare la condivisione di buone pratiche e dati di ricerca con le diverse comunità.  “Questo è l’unico modo per superare la conoscenza a macchia di leopardo che si ha oggi dei nostri oceani, sia a livello spaziale che temporale”, continua Crise.

Attualmente le aree marine che non si possono studiare in situ vengono esaminate tramite immagini satellitari e modelli matematici. “Le fotografie satellitari permettono di studiare solo la superficie del mare,  ostacolo superabile grazie ai modelli matematici, che trasferiscono le caratteristiche della superficie nello spazio e nel tempo e danno la possibilità di effettuare delle previsioni. In questi casi, però, il tasso di errore è superiore rispetto agli studi in situ”, spiega Crise.

Allo stesso tempo però, gli studi in situ sono quelli più costosi, perché prevedono l’utilizzo di navi e di strumentazioni molto complesse. “L’innovazione sta però aprendo nuove frontiere”, continua Crise. “L’Argo project, di cui l’OGS è capofila per il Mediterraneo, ha previsto l’impiego di 4000 boe robotizzate che vagano negli oceani trasportate dalle correnti e trasmettono regolarmente dati su temperatura e salinità, grazie a un collegamento satellitare. Questo esperimento, che costituisce un esempio unico a livello mondiale, non prevede però la raccolta di informazioni simili lungo i tratti costieri, ma solo in mare aperto. È importante che analisi simili vengano effettuate anche in prossimità della costa, dove si trovano le attività umane”, spiega l’oceanografo.

Questo progetto è anche un primo perfetto esempio di open science in ambito oceanico: i dati raccolti dalle boe, infatti, sono totalmente liberi e scaricabili dal sito del Jcommops , che coordina le attività del programma. “Sono già state prodotte numerose pubblicazioni grazie a questi dati. Al momento le nuove boe robotizzate stanno cominciando a raccogliere informazioni relative al profilo biochimico degli oceani: l’estensione dell’attuale programma Argo prevede infatti la raccolta, tra gli altri,  di dati sull’ossigeno disciolto, la clorofilla e la concentrazione di nitrato. Il rafforzamento e l’estensione del programma Argo (che è attivo solo in mare aperto) sono raccomandati dal gruppo di esperti afferenti all’iniziative  G7 ‘Future of the Seas and Oceans’ che ha suggerito questo workshop, perché sono sinergici alle osservazioni continuative che auspicabilmente verranno via via realizzate lungo le fasce costiere di tutti i mari e gli oceani del mondo e non solo di quelli dei pesi più avanzati.”, conclude Crise.

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Sara Moraca
Dopo una prima laurea in comunicazione e una seconda in biologia, ho frequentato il Master in Comunicazione della Scienza della Sissa di Trieste. Da oltre dieci anni mi occupo di scrittura: prima come autore per Treccani e De Agostini, ora come giornalista per testate come Wired, National Geographic, Oggi Scienza, La Stampa.