SPECIALI

Il primo rifugio dei delfini in mare, esperti a confronto

Whale Sanctuary Project: un rifugio in mare per cetacei e balene precedentemente ospitati in strutture di intrattenimento, oppure esemplari malati provenienti dallo stato naturale vittime di uno spiaggiamento.

“Da un punto di vista comportamentale, l’inserimento a mare è sicuramente molto arricchente per l’animale. Alcuni programmi che accolgono turisti in Centro America e Israele sono già esempi di strutture per delfini in mare.” Crediti immagine: Pixabay

SPECIALE LUGLIO – I delfini possono nuotare fino a 100 chilometri al giorno e a passano l’80% del proprio tempo sott’acqua. Ma è proprio in mare, nel loro habitat naturale, che è sempre più difficile osservarli: la cattura accidentale, gli effetti dell’inquinamento costiero e la scarsità di prede, diretta conseguenza dell’overfishing, gravano sulla vita di questi mammiferi marini che stanno scomparendo sempre più velocemente.

Stando ai dati WWF 2016, ogni anno sono circa 400.000 i delfini e le balene che nel mondo muoiono a causa della cattura accidentale. La pesca a strascico e quella a tramaglio costituiscono le tecniche più pericolose per questi cetacei, che spesso restano impigliati nelle reti e non riescono più a risalire in superficie, morendo poi per asfissia in modo molto doloroso. Per quanto riguarda lo scenario italiano, i dati sono piuttosto frammentati, “le zone italiane più interessate dal fenomeno sono l’Adriatico, lo Ionio e la Sardegna”, commenta Sandro Mazzariol, professore di patologia generale e anatomia patologica veterinaria all’Università degli Studi di Padova.

Mazzariol collabora da anni con la banca dati spiaggiamenti, una raccolta sistematica di informazioni sugli spiaggiamenti dei mammiferi marini sulle coste italiane, formalmente iniziata nel 1986, ma che sta trovando negli ultimi anni una più ampia utilizzazione da parte del mondo scientifico e di quello civile, come strumento di creazione di diverse reti locali di monitoraggio e di centralizzazione dei dati.

Solo tra il 2012 e il 2015, si sono registrati 628 spiaggiamenti totali in Italia. “Questi dati riguardano solo quelli che arrivano su spiaggia e che vengono scoperti e segnalati. Bisogna inoltre precisare che il dato si riferisce ai cetacei, ma la maggioranza degli spiaggiamenti riguarda stenelle e tursiopi”, commenta Mazzariol.

Tra gli spiaggiamenti, però, ci sono anche storie a lieto fine. Nei quattro anni considerati (2012-2015) sono stati 34 i delfini trovati vivi sulle spiagge italiane, con una media di 4,9 esemplari l’anno. Gli individui sopravvissuti vengono rimessi in mare, solo in casi eccezionali vengono destinati a uno dei tre delfinari ancora esistenti in Italia, Zoomarine vicino a Roma e Oltremare a Riccione o all’Acquario di Genova. Queste strutture,  che oggi ospitano complessivamente 29 esemplari, sono le uniche rimaste dopo la chiusura di altri tre acquari italiani. L’Acquario di Genova e Oltremare hanno accolto anche i delfini provenienti da altri tre acquari italiani chiusi in precedenza: quello del Palablu di Gardaland, è stato acquisito dalla Merlin Entertainment, gruppo internazionale che ha deciso di non ospitare più delfini in cattività nelle proprie strutture,  il delfinario di Rimini a cui gli animali sono stati sequestrati e Zoosafari, un delfinario che sorgeva vicino a Fasano, in provincia di Brindisi.

Il trasporto, dal mare al delfinario o da una struttura all’altra, comporta un elevato stress per l’animale: numerosi studi scientifici stabiliscono una correlazione causale diretta tra l’aumento degli spostamenti e la diminuzione delle difese immunitarie del cetaceo.

La progressiva chiusura di diversi acquari a livello internazionale, la netta posizione assunta da alcuni stati come la Finlandia, che nel 2015 ha deciso di chiudere l’ultimo delfinario ancora esistente all’interno dei propri confini, nonché la controversa questione degli animali in cattività hanno portato alla formulazione di nuovi progetti, come il Whale Sanctuary Project. L’ambiziosa idea dei 23 scienziati statunitensi che hanno lanciato il progetto è costituire un rifugio a mare per cetacei e balene precedentemente ospitati in strutture di intrattenimento, oppure esemplari malati provenienti dallo stato naturale, spesso vittime di uno spiaggiamento.

L’equipe è composta da biologi, veterinari e personale tecnico specializzato della British Columbia University. Il gruppo di lavoro ha precisato che uno degli obiettivi principali del progetto sarà la possibilità di liberare gli esemplari che hanno sempre vissuto allo stato naturale, mentre per quelli provenienti da acquari e delfinari la questione è più complessa e il rilascio in natura va progettato attentamente. Anche Tim Zimmermann, in un articolo pubblicato su National Geographic nel giugno 2015 sulla reintroduzione in mare dei delfini vissuti in cattività, ha precisato che negli ultimi cinquant’anni questi tentativi hanno dato  risultati alterni e spesso fallimentari.

La creazione di rifugi in mare può essere una scelta di successo anche per strutture commerciali, come avverrà a Baltimora (Usa), dove l’acquario cittadino ha deciso di lanciare un progetto pilota, che verrà ultimato nel 2020, e che permetterà di lasciare i delfini a contatto col proprio ambiente naturale, grazie a una speciale zona confinata creata in mare. Grazie al supporto tecnologico, i visitatori dell’acquario potranno osservare i delfini muoversi nel proprio habitat naturale: le telecamere montate sott’acqua proietteranno la quotidianità dei delfini su grandi maxi schermi. Anche la LAV e Marevivo,  in collaborazione con l’Istituto di ricerca Tethys,  stanno valutando un progetto simile in Italia, che potrebbe diventare il primo di questo tipo in Europa. Ma quali sono i pro e i contro di questa tipologia di soluzione? “Gli animali vivono in un ambiente molto più simile al proprio habitat naturale – precisa Mazzariol – ma di contro sono più esposti all’azione dei patogeni, perché l’ambiente è meno controllato rispetto a una vasca artificiale”.

“Da un punto di vista comportamentale, l’inserimento a mare è sicuramente molto arricchente per l’animale”, spiega Claudia Gili, medico veterinario e Direttore scientifico della Costa Edutainment. “Alcuni programmi che accolgono turisti in Centro America e Israele sono già esempi di strutture per delfini in mare. L’uomo deve garantire all’animale lo stesso livello di benessere psicofisico e di nutrizione, sia che esso venga mantenuto in una vasca o confinato in un ambiente naturale. Devono essere inoltre attrezzate vasche a terra, dove inserire l’animale in caso di eventi meteorologici estremi, e ambienti per la quarantena: tutto questo ha un costo, quantificabile in circa 100.000 euro all’anno per individuo. L’apertura di queste strutture al pubblico a fini educativi e di ricerca potrebbe garantirne la sostenibilità.

Buona parte degli animali presenti nei delfinari origina dall’America e non può pertanto essere liberato in Mediterraneo. Rimettere in libertà un animale nato in vasca presuppone un piano altamente riabilitativo, non solo fisicamente, ma anche da un punto di vista di apprendimento pratico della “vita in mare”. Non vanno trascurate inoltre la compatibilità tra gli animali che potrebbero essere inseriti nella struttura e la loro gestione comportamentale: mettere in un unico ambiente animali che arrivano dal mare e altri che provengono da ambienti confinati potrebbe originare un elevato rischio sanitario. Il mondo zoologico si è evoluto nel tempo: trent’anni fa tutte le antropomorfe erano confinate in gabbie di metallo nere, oggi hanno degli habitat naturalizzati. Sono pertanto convinta che l’incontro di diverse expertise, un’adeguata pianificazione per la sostenibilità economica e la garanzia di poter preservare il benessere dell’animale siano pilastri imprescindibili perché un progetto simile possa avere successo”, conclude la Gili.

Leggi anche: Deepwater Horizon, uno studio durato quattro anni misura le conseguenze sui delfini

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Condividi su
Sara Moraca
Dopo una prima laurea in comunicazione e una seconda in biologia, ho frequentato il Master in Comunicazione della Scienza della Sissa di Trieste. Da oltre dieci anni mi occupo di scrittura: prima come autore per Treccani e De Agostini, ora come giornalista per testate come Wired, National Geographic, Oggi Scienza, La Stampa.