Robotica marina per svelare i segreti degli oceani
Gli oceani coprono gran parte del pianeta ma, paradossalmente, conosciamo meglio Marte o la Luna. Un limite che possiamo superare grazie ai robot e alle nuove tecnologie
TRIESTE NEXT – Gli oceani ricoprono oltre il 70% della superficie del pianeta, eppure li conosciamo ancora pochissimo. Dopo decenni di studi sappiamo quasi tutto della Luna, abbiamo mappato nei dettagli la superficie di Marte, ma degli oceani abbiamo esplorato appena un 5% perché “sono ambienti talmente proibitivi che paradossalmente è più semplice esplorare lo spazio”.
A raccontarlo è Marco Bibuli, ingegnere e ricercatore al’ISSIA CNR (Istituto sui Sistemi Intelligenti per l’Automazione), che durante il festival scientifico Trieste Next ha parlato di come stiamo finalmente superando questo ostacolo grazie alla robotica marina.
Un esempio illuminante di quanto gli oceani siano allo stesso tempo affascinanti e respingenti è la famosa Fossa delle Marianne, la depressione oceanica più profonda della Terra, che a livello dell’abisso Challenger arriva quasi a 11 000 metri. Un sottomarino di classe militare? “Può spingersi intorno ai 1 000 metri. Al di sotto, qualsiasi cosa bella ci sia non possiamo raggiungerla se non servendoci di una qualche invenzione”, prosegue Bibuli. “Ed è qui che entrano in gioco tutti quegli oggetti tecnologici in grado di effettuare operazioni in completa autonomia, anche a grandi profondità. E non si tratta solo di droni”.
USV, ROV, AUV: le sigle dell’esplorazione negli abissi
Una caratteristica fondamentale di questi oggetti è che possono percepire quanto hanno intorno e interagirvi. Ci sono gli USV (che sta per Unmanned Surface Veichle, veicoli di superficie senza pilota umano), simili a vere e proprie barchette e con forme idrodinamiche, adatte a compiere operazioni sott’acqua, ma anche i più complessi ROV (Remotely Operated Vehicle, veicolo a controllo remoto), “che nella pratica sono scatoloni pieni di eliche e cilindri che consentono esplorazioni di profondità”, spiega Bibuli.
“La particolarità è che sono dotati di un cavo che li connette a una stazione interna, per ovviare ai due maggiori problemi legati a queste tecnologie: l’energia non è mai abbastanza e le comunicazioni sono difficili. Non c’è GPS, non c’è radio, non c’è wi-fi, perché manca la penetrazione elettromagnetica. Dunque la grande mole di dati raccolti, dai sonar ma anche dalle videocamere, possiamo recuperarla e trasferirla solo tramite un cavo. Ed è un impedimento, perché il può incagliarsi e ovviamente non possiamo percorrere grandi distanze”.
Lo step successivo è quello degli AUV (Autonomous Underwater Vehicle, veicoli sottomarini autonomi), definiti da molti i veri droni marini in quanto in grado di muoversi autonomamente in base alla missione per la quale sono stati programmati. Devono salvaguardare loro stessi mentre raccolgono i dati sott’acqua e poter tornare dall’operatore per riportare questo materiale in superficie. Per localizzarsi nell’ambiente “sfruttano sistemi basati sull’elettromagnetismo”, prosegue Bibuli, “ma hanno un limite, ovvero non sono affidabili al 100% e sono poco precisi”.
Di AUV ce n’è per tutti i gusti: così piccoli da poter essere trainati da una barca, ma anche grandi quanto un camion. La “dotazione di bordo” è anch’essa flessibile, dai sonar ai bracci robotici fino alle più sofisticate apparecchiature di ricerca. Sono occhi virtuali che ci portano nei più lontani e inesplorati abissi, ci consentono l’accesso a profondità incredibili come ha fatto ARGO, il ROV progettato da Robert Ballard del Woods Hole Oceanographic Institute (WHOI) che nel 1985 ha trovato il relitto del Titanic.
Oltre a scovare relitti, fare campionamenti scientifici e raccogliere dati, ROV e AUV soprattutto ci consentono di fare cose che con nessun altro veicolo sarebbero possibili. Esplorare i fondali per stabilire se una rotta commerciale è sicura o meno, posare dei cavi sottomarini, aggiustare tubature. Anche durante i disastri ambientali, tra tutti lo sversamento petrolifero della piattaforma Deepwater Horizon nel 2010, si sono rivelati cruciali: in quella circostanza un veicolo autonomo si immerse nelle acque del Golfo del Messico e riuscì a manipolare le valvole della piattaforma in modo da arginare le perdite di idrocarburi che si stavano riversando in mare senza sosta.
I robot sottomarini nella ricerca italiana
“Nei laboratori del CNR a Genova sviluppiamo veicoli che nascono come macchine da lavoro, dunque dovranno adattarsi alle più diverse applicazioni, essere flessibili. A partire dalla progettazione abbiamo le idee molto chiare e grazie alla modellazione matematica siamo ormai in grado di sviluppare tutta l’ ‘intelligenza’ del robot prima ancora che entri in acqua. Così, quando succederà, siamo ragionevolmente sicuri che non ci saranno imprevisti”, prosegue Bibuli.
L’operatore umano dietro a questi robot? “È un vero e proprio pilota, ma con le macchine più indipendenti – a guida semi-automatica o anche avanzata – diventa più che altro un supervisore”.
Se già alla fine degli scorsi anni ’90 questi robot ci permettevano di arrivare in ambienti estremi, oggi uno dei baluardi dell’esplorazione è l’Antartide. Sul continente di ghiaccio è arrivato Charlie, ROV protagonista della spedizione italiana 2003-2004 che ha permesso di studiare l’interazione tra acqua e aria “in un ambiente puro, dove i processi fisici sono interessanti per tutte quelle discipline che indagano il funzionamento del pianeta”, racconta Bibuli, “come la geofisica”.
Trovato il punto perfetto per calare in acqua i robot, “si fa un bel buco nel ghiaccio, estraendo carote di due o tre metri, e si monta il laboratorio da campo in una tenda che circonda il foro. Così il robot ci porta in un mondo surreale, che sembra desolato, silenzioso, ma in realtà è pieno di vita. Prima meduse poi colore, flora e fauna in quantità, creature inaspettate”.
Romeo, un altro ROV impiegato dagli scienziati in Antartide, aveva anche attirato l’attenzione delle foche. Una in particolare non era affatto intimorita dalla presenza del robot ma curiosa, e ogni giorno risaliva il buco arrivando nella tenda, nel laboratorio da campo, per annusare Romeo e toccarlo, interagendo anche con i ricercatori. Sembra quasi superfluo dire che era stata soprannominata Giulietta.
Per il futuro, sono sempre di più gli ambiti nei quali questi veicoli sottomarini potrebbero fare la differenza. Interventi a grandi profondità con robot capaci di identificare autonomamente il proprio obiettivo (progetto MARIS) ma anche supporto e affiancamento ai subacquei durante le immersioni (progetto CADDY). “Il robot non è un sostituto che ci ruba il lavoro ma uno strumento prezioso, una nuova opportunità”, conclude Bibuli. “Non si fa male, può essere sacrificato per salvare la vita umana e ogni traguardo raggiunto è un nuovo punto di partenza”.
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