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Tundra e dintorni: il cambiamento climatico per 4 animali iconici

Animali costretti a lasciare il loro habitat e a spingersi sempre più in alto, altri che prosperano perché le estati sempre più lunghe aumentano il cibo a disposizione. Così i cambiamenti climatici impattano la fauna selvatica in infiniti modi diversi.

SPECIALE NOVEMBRE – La tundra è uno dei biomi più freddi e inospitali del pianeta. Poche precipitazioni, estati brevi e basse temperature hanno guidato gli adattamenti delle specie che la abitano: le piante crescono nelle zone più riparate dai forti venti, gli animali si nutrono di piccoli arbusti e spesso hanno pelliccia e forma del corpo tali da fare da barriera contro il clima rigido. Ma negli ultimi decenni le temperature sono andate aumentando e il riscaldamento globale non ha lasciato intatto alcun ambiente. Nemmeno questi freddi e isolati paradisi. Le estati durano più a lungo e aree normalmente coperte di ghiaccio negli ultimi mesi dell’anno sono invece sgombre, popolate da orsi che come fantasmi vagano alla ricerca di un pasto alternativo, costretti a farsi più onnivori come i loro parenti dei climi meno freddi. Oltre a questi famosi plantigradi abbiamo scelto altre tre specie che, nel bene o nel male, stanno cambiando vita mentre il pianeta si fa più caldo.

Un alce maschio nel Chugach State Park, Alaska. Wikimedia Commons, Public Domain

L’alce

Con due metri di altezza per svariati quintali, le varie specie di alce che popolano il pianeta sono i più grandi cervidi noti. I loro maestosi palchi di corna sono del tutto diversi da quelli di specie imparentate come i cervi, i daini o i muntjak, e superano i 150 centimetri di ampiezza. Questi imponenti animali sono una presenza iconica per l’Alaska, letteralmente “animali bandiera”, ma in molte delle regioni di tundra erano diventati estremamente rari. Secondo alcuni esperti la caccia ha avuto un ruolo in questo calo, insieme anche la scarsità di cibo. Durante i gelidi mesi invernali, trovare abbastanza da mangiare per sostentare un corpo di 400 o 500 chilogrammi non è semplice: gli alci si nutrono di arbusti e dei germogli che spuntano dalla neve.

Ma con l’aumento delle temperature nel corso del XX secolo, ed estati sempre più lunghe, qualcosa è cambiato. Dal 1860 ai primi anni 2000 gli arbusti sono cresciuti da un’altezza media di circa un metro (secondo le stime) a due metri, il che significa che molti di più riescono a “bucare” la neve. Di pari passo l’areale di varie specie di alci si è ampliato verso Nord di svariate centinaia di chilometri, seguendo la rinnovata disponibilità di cibo, in quella che gli scienziati hanno definito una delle conseguenze più ingenti del riscaldamento globale sulla fauna selvatica.

“A tale of two foxes”, immagine di Don Gutoski, tra i vincitori del WPY 2015

La volpe artica

Nel 2015 il prestigioso premio Wildlife Photographer of the Year – Grand Title Winner, è andato al fotografo Don Gutoski per la sua A tale of two foxes, un’immagine di grande impatto sia per la scena immortalata sia per la capacità di mostrare uno dei risultati del riscaldamento globale. Una volpe rossa (una sottospecie di Vulpes vulpes) tiene in bocca quanto resta di una volpe artica (V. lagopus), con la pelliccia immacolata macchiata di sangue. Lo scatto ha richiesto tre ore di pazienza, a -30 °C del Wapusk National Park. Ma la circostanza diventerà sempre meno rara: nella tundra canadese il cambiamento climatico ha consentito alle volpi rosse di spingersi sempre più a Nord e incrociare così l’areale delle cugine artiche, piccole come gatti e con zampe e muso più corti. Le due specie sono in competizione perché si nutrono delle stesse prede, come i roditori, ma le volpi rosse cacciano quelle artiche sempre più spesso e si appropriano delle loro tane.

Per sfuggire dalle parenti rosse, che pesano il doppio di loro e trascorrono oltre il 50% del tempo in più da sveglie, le volpi artiche non hanno che una scelta: spingersi ad altitudini sempre più elevate sfruttando i loro adattamenti, che consentono di sopravvivere anche a temperature estreme (-70°C). Ma folta pelliccia isolante e una forma compatta potrebbero non essere sufficienti.

Un orso polare immortalato da un ricercatore a bordo del vascello di ricerca tedesco POLARSTERN. Fotografia di Hannes Grobe/AWI, Wikimedia Commons, CC BY-SA 2.5

L’orso polare

“Alle ore 12.00 del 9 novembre 2015 a Churchill, cittadina canadese che si affaccia sulla Baia di Hudson, il termometro segnava una minima di -20 °C. Oggi, a un anno di distanza, il termometro segna +3 C°”. Inizia con queste parole un bel reportage di Luca Bracali, che nella Baia di Hudson, in Canada, ha documentato l’agonia degli orsi polari su un pianeta sempre più caldo. Secondo le previsioni più pessimistiche, arrivati al 2050 la specie avrà subito un crollo del 75% o peggio.

Questa baia, la più grande al mondo, è considerata il luogo perfetto per avvistare gli orsi polari nel loro ambiente naturale. Solo qui se ne conta un migliaio di esemplari e oltre la metà di questi plantigradi vive nel territorio canadese o lungo i confini con Alaska e Groenlandia; ogni anno, tra ottobre e novembre, la zona che circonda Churchill si ricopre di ghiaccio e attira i plantigradi che arrivano per cacciare le foche. Ma con il cambiamento climatico il paesaggio è cambiato, gli orsi polari sono sempre di meno (oggi la specie è a rischio di estinzione secondo la IUCN) e hanno cambiato dieta e comportamenti. In mancanza della copertura ghiacciata sono costretti a vagare lungo le coste, non di rado i maschi adulti cannibalizzano i piccoli, molti esemplari si nutrono di alghe o delle uova di uccelli locali e sono stati documentati almeno due attacchi a cani. A causa della scarsità di cibo, sempre più spesso gli orsi polari si spingono verso i centri abitati, dove squadre di professionisti si occupano di gestirli, a volte catturandoli e liberandoli a decine di chilometri di distanza da Churchill.

Un gruppo di renne si raduna su una distesa nevosa. Fotografia di Bjørn Christian Tørrissen, Wikimedia Commons, CC BY-SA 3.0

La renna o caribù

Come accade con gli alci, anche altri ungulati beneficiano dell’abbondanza di vegetali legata alle temperature più alte. Non sono da meno le renne, come in Europa chiamiamo collettivamente almeno sette diverse sottospecie solo nell’ambiente di tundra. Rangifer tarandus è, secondo le valutazioni della IUCN, vulnerabile: vive negli Stati Uniti Nord-Occidentali, in Alaska, in Canada, Groenlandia, Norvegia, Finlandia, Russia e Mongolia, minacciata soprattutto dalle modifiche fatte all’ambiente dagli esseri umani. La costruzione di infrastrutture come strade, impianti sciistici o ferrovie può deviare di molti chilometri la migrazione di questi animali, che devono “aggiustare” di conseguenza gli spostamenti stagionali.

Se per R. tarandus la frammentazione e la distruzione dell’habitat hanno contribuito a una preoccupante riduzione di numero – nel 2015 è stato stimato un crollo da quasi cinque milioni di esemplari a meno di tre – gli effetti del cambiamento climatico sono tanti e variano tra i diversi ambienti e sottospecie.  Da una parte, suggeriscono gli esperti, le temperature più elevate potrebbero esacerbare gli effetti di parassitosi e patologie, dall’altra per i caribù (il nome comune americano per le renne) in Alaska “le primavere anticipate, l’aumento di biomassa, stagioni di crescita più lunghe e cambiamenti nella qualità del cibo tra autunno e inverno” potrebbero essere positivi per le femmine riproduttive. Allo stesso tempo, nel fronteggiare un clima che cambia le renne hanno un ruolo ecologico fondamentale; si nutrono delle piante più alte e con foglie larghe, rimuovendo così la “coperta” dalla tundra e aumentano la disponibilità di luce verso gli strati sottostanti, dove possono germinare e crescere altre specie.

@Eleonoraseeing

Leggi anche: Orsi polari, sentinelle degli inquinanti nell’Artide

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".