Yeti, la genetica smentisce i campioni: appartengono a orsi
Non è la prima volta che i campioni attribuiti dal folklore a Bigfoot vengono analizzati dagli scienziati. Ma lo studio ha svelato un altro mistero, la storia evolutiva degli orsi bruni.
ANIMALI – Sasquatch e Bigfoot negli Stati Uniti, Abominevole uomo delle nevi ai piedi dell’Hymalaia, Almasty in Russia. La creatura leggendaria che la maggior parte di noi conosce con il nome di Yeti affascina, fin dal 1800, gli esploratori, i criptozoologi e i curiosi di tutto il mondo, con comunità di cacciatori di Yeti – intenzionati a portarsi a casa un ciuffo di peli, una foto o un video – che si sono dati il soprannome di Squatchers.
Alto anche più di due metri e coperto di pelo, spesso bianco nell’immaginario delle vette tibetane ma scuro o marrone-rossiccio tra le foreste della British Columbia, sull’identità dello Yeti si è detto molto: tra le ipotesi più famose c’è quella che si tratti di un gigantopiteco come Gigantopithecus blackii, un enorme primate estinto 100 000 anni fa, che raggiungeva i tre metri di altezza per svariati quintali di peso. Sfortunatamente, a escludere questo candidato Yeti c’è la sua dieta vegetariana poco compatibile con la vita a 6000 metri. Le mandibole fossili rinvenute dai paleontologi (salvate appena in tempo dal mercato della medicina tradizionale cinese) mostrano denti simili a quelli dei panda, con cui il gigantopiteco condivideva l’alimentazione incentrata sul bambù.
Nel 2012 i ricercatori dell’Università di Oxford e del Museo di Zoologia di Losanna hanno chiesto agli appassionati di tutto il mondo di spedire loro i campioni di peli “misteriosi” che avevano trovato, per poterli analizzare. Alcuni erano troppo vecchi, altri ancora non erano peli ma fibre vegetali e dai 57 ricevuti il campione è stato ristretto a 30 ciuffi. Ma le analisi dell’RNA mitocondriale non hanno riservato sorprese: appartenevano tutti a cani, lupi, cavalli, orsi, cervi, procioni e… un umano. Due campioni, prelevati in India e in Butan, corrispondevano però all’RNA di orso polare, il che ha dato origine a un’altra ipotesi: forse alcuni orsi bruni himalayani erano ibridi di orso polare?
“I dati su cui si basavano gli studi passati non erano sufficienti per poter sostenere l’ipotesi che la leggenda dello Yeti fosse in realtà da ricondurre a una nuova specie di orso, o a un orso ibrido che viveva sull’Himalaya”, spiega a OggiScienza Charlotte Lindqvist, che studia l’evoluzione e la storia genomica degli orsi polari. “Le analisi erano basate su una sequenza molto corta del gene che codifica per l’RNA mitocondriale 12S, la quale non mostra differenze tra diverse specie di orsi – o popolazioni – strettamente imparentate tali da permetterci di stabilire la discendenza degli orsi”.
Come avevano già scritto due scienziati in un commento allo studio del 2012, dunque, niente orsi polari ibridi. Lindqvist e i colleghi hanno analizzato il DNA ricavato da presunti campioni di yeti conservati in collezioni private, musei e monasteri. Ossa, feci, pelle, peli e denti attribuiti alla misteriosa creatura appartenevano anche stavolta a specie molto meno mitologiche: un cane e diversi orsi, l’orso nero asiatico (Ursus thibetanus) l’orso bruno tibetano (Ursus arctos pruinosus) e l’orso bruno dell’Himalaya (U. a. isabellinus).
“Abbiamo basato le nostre conclusioni su una mole di dati maggiore e analisi rigorose, compresa la ricostruzione filogenetica degli interi genomi mitocondriali di molti orsi neri, orsi polari e orsi bruni. In questo modo, con forti basi statistiche, abbiamo potuto stabilire che gli ipotetici campioni di Yeti appartengono a popolazioni moderne di orsi, che oggi vivono in quella regione”, dice Lindqvist. Molti fan dell’Abominevole uomo delle nevi pensano che la scienza non abbia mai davvero dato una possibilità alla ricerca dello Yeti (o dei suoi cugini americani) ma in questo caso la ricerca zoologica e genetica ha incontrato il mito.
Lindqvist ha condotto le prime analisi sui campioni in occasione del documentario Yeti or not andato in onda nel 2016 e ora ne pubblica i risultati, ma “il motivo principale per cui ho intrapreso la ricerca è il mio interesse per l’evoluzione degli orsi. I dati genetici sono limitati, sappiamo poco riguardo agli orsi che vivono nella regione himalayana e alle loro parentele con gli altri orsi bruni del pianeta. La mia speranza era che questi ipotetici campioni di Yeti potessero darci l’opportunità di scoprire di più sugli orsi di questa regione”. Già in passato si era ipotizzato che gran parte degli avvistamenti e dei campioni attribuiti a una qualche creatura mitologica potesse essere in realtà ricondotta proprio ai plantigradi locali. “Ma non erano mai stati fatti dei test rigorosi e penso che il nostro studio dimostri che, per esplorare leggende o misteri, è necessario avere un approccio scientifico e cauto”.
Gli orsi bruni sono diffusi in tutto il mondo con diverse sottospecie; per esempio l’orso bruno marsicano, che conta qualche decina di esemplari in Italia. Anche se Ursus arctos non è considerata una specie a rischio dalla IUCN, “gli orsi bruni sulle montagne dell’Himalaya sono diminuiti e la popolazione oggi è a rischio di estinzione”, spiega Lindqvist. “I risultati del nostro studio mostrano che questi plantigradi e gli orsi bruni che vivono a elevate altitudini sull’altopiano del Tibet appartengono a due popolazioni geneticamente isolate, che sono rimaste separate per varie migliaia di anni nonostante vivano relativamente vicine. L’orso bruno dell’Himalaya, in particolare, potrebbe essere stato separato dagli altri per oltre 600 000 anni. Penso sia la dimostrazione che questa popolazione merita uno status speciale tra gli orsi bruni del mondo e che la sua conservazione dovrebbe avere la priorità”.
Così si chiude un’altra delle porte aperte sul mistero dello Yeti. Forse i fan ne saranno scoraggiati, oppure lo prenderanno come un incentivo a spingersi ancor più a fondo nelle foreste americane alla ricerca del Sasquatch, o sull’Himalaya per l’Abominevole uomo delle nevi. Nuovamente una creatura leggendaria viene ricondotta a una (o più) specie decisamente più terrena, come era stato con il mitico unicorno africano, un animale simile a una giraffa ma anche a una zebra, ma descritto dall’esploratore Henry Morton Stanley come una specie di “asino” e che altri non era che l’okapi.
“Non sono una criptozoologa, né credo alle leggende su strane creature scimmiesche. E la scienza ha già mostrato che i racconti su strani animali, come appunto l’okapi, in genere si basano su fatti biologici”, conclude Lindqvist. “Penso che queste creature leggendarie possano essere ricondotte ad antiche storie su specie che erano in vita, magari oggi estinte, o altre che tuttora vivono sul pianeta. Ma alle persone piacciono i misteri e i miti sono importanti in molte culture, perciò sono certa che avranno vita lunga!”
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