AMBIENTE

Una nuova prospettiva sui migranti climatici

Nell'ultimo report della Banca Mondiale c'è un nuovo approccio per definire e identificare i migranti climatici ma, anche stavolta, alcuni aspetti restano ambigui

Fuori dalla città kenyota di Dadaab, una bambina in piedi di fronte alle tombe di 70 coetanei. Crediti foto: Oxfam East Africa, CC BY 2.0

AMBIENTE- Nel 2050 ci saranno 143 milioni di migranti climatici, rivela il report Groundswell della Banca Mondiale pubblicato qualche giorno fa. Il report ha fatto clamore perché, per la prima volta, sfrutta una metodologia considerata solida per fornire un numero all’intricato problema della definizione di migrante climatico. Usato come foriero di orde di nuovi migranti, o come monito di allarme per “fare qualcosa”, quel numero – 143 milioni di persone – in realtà va letto nella sua profondità e nella sua dubbia interpretazione.

Chi è un migrante climatico

Come già scritto da Oggiscienza, al momento nel mondo non esiste una definizione univoca di migrante climatico. La più comune, lontana dall’essere universale, è quella dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (International Organization for Migration – IOM):

I migranti ambientali sono persone o gruppi di persone che, per motivi imperativi di cambiamenti improvvisi o progressivi per l’ambiente che influenzano negativamente la loro vita o le condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le loro case abituali o scelgono di farlo, in maniera temporanea o definitiva, e che si spostano sia all’interno del loro paese sia uscendo dai confini del proprio paese.

C’è anche una nuova e contorta definizione data dal Parlamento europeo, inserita maldestramente all’interno di una risoluzione sulle donne e la parità di genere che è stata approvata nel gennaio di quest’anno.

[…] la Commissione a […] salvaguardare la giustizia climatica riconoscendo il cambiamento climatico come motore della migrazione, di fornire un contributo basato sui diritti umani e di integrare pienamente la dimensione di genere nel Patto [globale per la migrazione sicura] conformemente alle esigenze delle persone sfollate a causa dei cambiamenti climatici

Il recente report della Banca Mondiale, invece, definisce i migranti climatici come:

persone che si muovono […] a causa della migrazione indotta dai cambiamenti climatici

La novità sta però ne tipologia di migranti climatici citati dal report. A differenza di un precedente documento del dicembre 2017 stilato dalla Columbia University, in cui si studiava il rapporto tra richiedenti asilo in Unione Europea e migrazioni causate dai cambiamenti climatici, il report della Banca Mondiale si concentra sulle migrazioni interne dei paesi del cosiddetto “Sud del mondo” (Asia, Africa e Sud America), in particolare per chi si sposterà internamente per più di 14 km dalla propria attuale residenza. È un cambio di paradigma interessante, ma che nasconde delle insidie.

Il problema dei numeri

Il sopracitato studio della Columbia University affermava che, entro il 2100, a causa dei cambiamenti climatici avrebbero cercato rifugio in Europa circa 660 000 persone. Questa cifra emerge da una correlazione che i ricercatori della Columbia University hanno trovato tra le domande presentate all’UE da persone provenienti da un centinaio di paesi e le condizioni ambientali e socio-politiche di tali paesi tra il 2000 e il 2014. La debolezza dell’impianto è evidente: si tratta di una correlazione in un arco temporale limitato e disomogeneo (si passa da un periodo di forte crescita economica globale alla crisi del 2008), sul quale si è costruito un modello che dovrebbe essere valido per i prossimi 80 anni. Peraltro, dati alla mano, 660 000 richiedenti asilo per motivi climatici in 80 anni significa una media di poco più di 8 000 persone l’anno, ovvero circa lo 0,3% del totale di coloro che, ad esempio, erano considerati richiedenti asilo o migranti per motivi economici in Europa nel 2015.

Il nuovo studio della Banca Mondiale sembra però più solido sotto il profilo metologico. Innanzitutto l’arco temporale della previsione è più ristretto: entro il 2050. Inoltre, considerando solo i migranti interni alle nazioni più a rischio, mette l’accento su un problema più concreto di quello dei possibili richiedenti asilo in Europa. Gran parte dei migranti del mondo, infatti, si sposta internamente a un paese o in quelli immediatamente limitrofi.

Una questione molto più critica rispetto alle migrazioni transcontinentali, poiché spesso masse di persone si spostano in territori che sono sì parzialmente più sicuri, ma certamente non capaci di assorbire grandi spostamenti di popolazione. E i risultati delle simulazioni nel report lo confermano: dei 143 milioni totali, 86 milioni si muoveranno all’interno dei paesi dell’Africa sub-sahariana (concentrandosi nelle fertili zone dei grandi laghi, dove le tensioni etniche sono già alle stelle), 40 milioni nell’Asia centro-meridionale (principalmente nella zona a cavallo della penisola indocinese e il subcontinente indiano), 17 milioni in America Latina.

Una questione complicata

I numeri sono imponenti ma non devono trarre in inganno. Gli 86 milioni di migranti climatici interni prospettati nell’Africa sub-sahariana rappresenterebbero solo una piccola frazione del miliardo di persone che vive in quell’enorme continente; nello specifico lo 0,08% del totale se non consideriamo la crescita demografica ampiamente prospettata.

Nel report della Banca Mondiale si individua il Corno d’Africa come una delle regioni maggiormente colpite. La notizia, purtroppo, non sconvolge: è almeno dagli inizi degli anni ‘90 che la zona è vittima di una carestia ormai strutturale, tuttora è in corso nel silenzio globale, e che ha creato tutto ciò che può spingere le popolazioni alla disperazione: guerre civili (Somalia, Eritrea), integralismo religioso (Somalia), invasioni militari (Eritrea, Somalia), etc.

Il punto, però, è proprio questo, ed è anche il punto debole del report: se è evidente il rapporto tra avversità ambientali e dinamiche socio-economiche, quale delle due è causa dell’altra? In altre parole, come si può distinguere precisamente la causa della migrazione di una persona, ad esempio dal Corno d’Africa, dove insistono tutti i principali fattori che possono scatenare migrazioni? 

Al punto di partenza

La questione dunque torna da principio. Non esistendo una definizione precisa di migrante climatico la migrazione causata del clima è difficilmente scollegabile da quella per ragioni politiche o economiche. Risulta così troppo difficile fare previsioni che siano robuste e al tempo stesso significative.

Il problema esiste, è concreto e deve essere affrontato. Morire di fame, sete o malattie facilmente curabili non è mai stato tollerabile, oggi a maggior ragione. Ma cercare a tutti i costi di ridurre a pochi numeri un fenomeno complesso come quello delle migrazioni può lanciare un messaggio fuorviante, soprattutto oggi: quei 143 milioni di persone, se non opportunamente contestualizzati, rischiano solo di impaurire.

Esiste però un posto nel mondo dove la definizione di migrante climatico, anche genericamente inteso, si potrebbe applicare senza possibilità di fraintendimenti. Si tratta della miriade di piccole isole del Pacifico dove l’innalzamento degli oceani è già una realtà quotidiana, concreta e facilmente scindibile dalle ragioni socio-economiche. Nel Pacifico non ci sono guerre in atto né malnutrizione diffusa e l’economia è quasi ovunque sopra la soglia di sussistenza; quei popoli stanno scappando perché giorno dopo giorno sono sommersi dall’acqua. Ed ecco che in questo caso una nuova – singola – categoria giuridica ha effettivamente senso di esistere. Ma non è riconosciuta, forse perché agli occhi del mondo gli abitanti del Pacifico sono troppo pochi, troppo piccoli e troppo lontani.

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