Super Terre, un potente laser per svelare i segreti dei loro nuclei
Ricreare in laboratorio le condizioni estreme dei nuclei delle super Terre: l’obiettivo raggiunto dagli scienziati di Princeton apre la strada allo studio degli esopianeti
SCOPERTE – Come è fatto l’interno delle oltre 2mila super Terre scoperte nella nostra galassia? Con l’osservazione di questa classe di pianeti rocciosi grandi almeno tre volte la Terra, ma comunque dalle dimensioni inferiori a quelle di Nettuno, gli scienziati cercano nuovi modelli che possano descriverne le caratteristiche strutturali e chimiche. Tra questi c’è il gruppo guidato da Thomas Duffy e June Wicks dell’università di Princeton, che grazie a potenti fasci laser sono riusciti a simulare le condizioni interne di questi esopianeti e studiare come le leghe di ferro e silicio rispondono alle straordinarie pressioni a cui i nuclei sono sottoposti.
Gli scienziati si sono avvalsi dell’Omega Laser nel Laboratory for Laser Energetics Lawrence dell’università di Rochester e della collaborazione del Livermore National e sono riusciti a raggiungere pressioni fino a 1314 gigapascal (GPa), un valore tre volte superiore ai precedenti esperimenti realizzati. I risultati pubblicati sulla rivista Science Advances rappresentano un’occasione per poter ottenere nuovi modelli di queste super Terre, come ha sottolineato Duffy:
“Ora abbiamo tecniche che ci permettono di accedere direttamente alle pressioni degli strati interni e profondi degli esopianeti e di misurare importanti proprietà. In precedenza, gli scienziati erano limitati a calcoli teorici o lunghe estrapolazioni di dati a bassa pressione. Poter eseguire esperimenti diretti ci permette di testare i risultati teorici e fornisce un grado di confidenza molto più alto ai nostri modelli su come i materiali si comportano sotto queste condizioni estreme”.
Il problema principale per gli scienziati, nello studio delle architetture planetarie delle super Terre che popolano la nostra galassia, è che nel nostro sistema solare non esistono loro analoghi. Si tratta infatti di pianeti con dimensioni pari ad almeno 3 volte quelle della Terra, ma comunque inferiori a Nettuno. Ottenere informazioni sulla loro composizione e sulle loro strutture rappresenta dunque una vera e propria sfida che ha posto i ricercatori davanti a due limiti principali: il primo è che non abbiamo misurazioni dirette, nemmeno del nostro stesso pianeta, da cui estrapolare i dati. Il secondo invece è rappresentato dalle pressioni interne in prossimità del nucleo, che possono raggiungere valori 10 volte superiori a quelle esercitate sul nucleo terrestre. Duffy ha spiegato:
“La maggior parte degli esperimenti ad alta pressione utilizzano celle di incudini diamantate che raramente raggiungono pressioni oltre i 300 GPa, cioè circa 3 milioni di volte la pressione esercitata sulla superficie della Terra. Le pressioni nel cuore della Terra invece raggiungono i 360 GPa. Il nostro approccio è decisamente innovativo, tanto che in molti nella comunità scientifica non hanno ancora familiarità con esso, ma con questo studio e lavori passati siamo stati in grado di dimostrare che è possibile raggiungere pressioni di circa 1000 GPa o superiori, anche se solo per una frazione di secondo. La possibilità di combinare le alte pressioni alla diffrazione a raggi X ci ha permesso di ottenere importanti informazioni strutturali e si pone come un nuovo strumento per esplorare l’interno degli esopianeti”.
Il metodo utilizzato, infatti, è ancora agli inizi, ma ha già permesso non solo di estrapolare nuovi dati ma anche di porre dei limiti più stringenti nella definizione di modelli che descrivano al meglio le strutture interne delle super Terre. I ricercatori guidati da Wicks e Duffy hanno diretto un corto e intenso fascio laser su due campioni di ferro legati in percentuali differenti al silicio. Il primo campione, con una concentrazione di silicio al 7 percento di peso (Fe-7Si), ha una composizione simile a quella attesa nel nucleo terrestre. Il secondo campione, con una concentrazione di silicio al 15 percento di peso (Fe-15Si), è invece una delle possibili composizioni dei nuclei degli esopianeti.
I campioni sono stati compressi a pressioni altissime per appena pochi miliardesimi di secondo, un tempo che però si è rivelato sufficiente a sondare la struttura atomica utilizzando un impulso luminoso a raggi X. Gli scienziati sono così riusciti ad ottenere un modello di diffrazione che ha fornito importanti informazioni sia sulla densità delle leghe di ferro e silicio, che sulla loro struttura cristallina, che varia all’aumentare della quantità di silicio che compone la lega. Comprendere la struttura e la composizione del nucleo di un pianeta è molto importante, sottolinea Duffy, perché essa esercita un controllo non solo sul campo magnetico del pianeta stesso, ma anche sulla sua evoluzione termica e sulla relazione tra massa e raggio:
“Sappiamo che il nucleo della Terra è composto da ferro legato con circa il 10 percento di un elemento più leggero, come ad esempio il silicio, che si è rivelato uno dei migliori candidati sia per il nostro pianeta che per quelli extrasolari”.
Portando i campioni a pressioni ultra alte grazie ai fasci laser, i ricercatori hanno osservato due differenti strutture cristalline in funzione delle quantità di silicio: le leghe più “povere” di questo elemento leggero si sono organizzate in strutture chiuse esagonali, mentre quelle con concentrazioni maggiori appaiono come un imballaggio cubico centrato sul corpo. Queste differenze atomiche hanno enormi implicazioni, ha sottolineato Wicks, che ora è assistente professore alla Johns Hopkins University:
“Conoscere la struttura cristallina è la parte di informazione più fondamentale sul materiale che compone l’interno di un pianeta, poiché tutte le altre proprietà chimiche e fisiche seguono proprio da essa”.
Misurando la lega ferro-silicio a diversi valori di pressione in un intervallo compreso tra i 131 e i 1314 GPa per il campione Fe-7Si, e tra i 105 e i 1260 GPa per il campione Fe-15Si, i ricercatori guidati da Wicks sono riusciti a determinarne la rispettiva densità, scoprendo che alle pressioni più alte essa raggiunge un valore compreso tra i 17 e i 18 grammi per centimetro cubo, che è pari a circa 2,5 volte la densità della crosta terrestre ed è comparabile con quella di materiali come l’oro o il platino sulla superficie del pianeta.
Mettendo a confronto i due campioni con precedenti studi condotti sul ferro puro (Fe), i ricercatori hanno scoperto che le leghe ottenute con il silicio sono meno dense, anche sotto pressioni estreme. Un risultato importante, sottolinea Duffy, che permette di ottenere una visione più realistica dei nuclei planetari:
“Un nucleo planetario composto di ferro pure non è realistico, dato che il processo di formazione planetaria porta inevitabilmente alla incorporazione di un significativo ammontare di elementi più leggeri. Il nostro studio è il primo che tiene in considerazione una composizione del nucleo decisamente più realistica”.
Un altro effetto della presenza del silicio insieme al ferro in un ipotetico nucleo planetario è che le sue dimensioni aumentano ma la pressione centrale si riduce, dunque esiste un effetto diretto sulla relazione massa-raggio in funzione della sua composizione chimica.
Il nuovo approccio di Wicks e colleghi si è rivelato vincente per affinare e porre dei limiti ai modelli ipotizzati dagli scienziati per descrivere questa classe di esopianeti, ma la strada da fare è ancora lunga. Il prossimo passo dei ricercatori sarà quello di studiare gli effetti di altre possibili composizioni dei nuclei, ad esempio leghe di ferro e carbonio, oppure di ferro e zinco, entrambi due elementi leggeri che possono influenzare la struttura e la densità dei nuclei a pressioni ultra alte. D’altronde, come ha spiegato Duffy, per un geologo scoprire così tanti esopianeti rappresenta un nuovo campo di esplorazione.
La grande varietà di pianeti che sono al di fuori del nostro “ristretto” sistema solare offre infatti agli scienziati una vasta “scelta” di campi di indagine. Svelare e comprendere la composizione interna di questi grandi pianeti rocciosi rappresenta una chiave di volta per trovare la risposta a questioni fondamentali che vanno dall’esistenza delle placche tettoniche, la comprensione dei meccanismi di generazione dei campi magnetici, l’evoluzione termica di un pianeta e soprattutto a porre nuovi fattori per determinarne la potenziale abitabilità.
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