L’evoluzione dell’intelligenza artificiale in mezzo secolo di Westworld
Dopo un anno e mezzo di attesa, il 22 aprile ha debuttato negli USA la seconda stagione di Westworld: una delle serie tv più costose, intriganti e di successo degli ultimi anni
STRANIMONDI – Per chi si fosse perso la prima stagione di Westworld, il gioiellino della HBO, basato sull’omonimo film del 1973 di Michael Crichton, è ambientato in un sistema di futuristici parchi tematici, popolato da androidi talmente perfetti da risultate indistinguibili dagli esseri umani.
La serie prende il nome dal parco in cui si svolge la trama della prima stagione, una selvaggia valle degli Stati Uniti durante l’epoca dei primi pionieri. Tra assalti alle diligenze e scazzottate nei saloon, i visitatori sono protagonisti di un vasto catalogo di trame narrative e avventure. Ma soprattutto possono dare sfogo alle loro pulsioni più profonde in totale sicurezza e senza il timore di ripercussioni.
Il sottotitolo italiano della serie, Dove tutto è concesso, è cinicamente esplicativo: gli androidi non possono ferire i visitatori perciò sono spesso vittime di abusi e violenze. Ovviamente, qualcosa va storto e gli androidi iniziano a ribellarsi alla propria condizione.
Le analogie con il film del 1973 finiscono qui. Gli androidi della serie televisiva non sono semplici bambole meccaniche ma intelligenze artificiali dotate di ricordi, desideri e sogni a occhi aperti. La serie corre perciò su binari completamente diversi, su cui sferragliano a tutto vapore riflessioni sull’autocoscienza, sui diritti e sulla possibile convivenza tra umani e androidi.
L’intelligenza artificiale in Westworld dal 1973 a oggi
D’accordo, nulla che non sia già stato visto altrove. Lo sviluppo di coscienza nelle “macchine” è uno dei temi più ricorrenti della fantascienza. Tuttavia, la possibilità di fare un confronto diretto tra i due Westworld rappresenta una ghiotta occasione per esaminare l’evoluzione della nostra concezione di intelligenza artificiale in quasi mezzo secolo di progresso. E perché no, per provare a delineare le sfide del prossimo futuro.
In quest’impresa si è cimentata Robin Murphy, professoressa di informatica e ingegneria nonché direttrice del laboratorio di robotica antropomorfa e intelligenza artificiale alla Texas A&M University, con un articolo pubblicato sulla rivista Science Robotics.
Secondo Murphy, i due Westworld incarnano gli estremi opposti della filosofia dell’intelligenza artificiale. Il principale antagonista del film, un glaciale pistolero che bracca il protagonista, riassume in pieno le caratteristiche della cosiddetta intelligenza artificiale debole.
Per quanto l’aspetto possa essere identico a quello di un essere umano, esso resta una macchina che, al pari dei motori scacchistici come Deep Blue, semplicemente svolge un compito più efficacemente di quanto potrebbe fare l’uomo. Per quanto disponga di un’ottima abilità di ragionamento e risoluzione dei problemi, il pistolero non dimostra piena comprensione delle sue azioni. E dunque non potrà maturare l’autocoscienza propria delle intelligenze artificiali forti che affollano la serie televisiva.
Uno strappo, questo, ribadito anche dal ribaltamento della prospettiva. Mentre nell’opera di Crichton gli avvenimenti sono raccontati dal punto di vista dei protagonisti umani, nella serie televisiva si alterna con quello degli androidi. Portando lo spettatore a empatizzare con la condizione di Dolores, costantemente alla ricerca di se stessa, o con la determinazione di Maeve, decisa a ritrovare la figlia e fuggire dal parco.
La distinzione tra intelligenza artificiale forte e debole ci catapulta nella profondità della Valle. Non quella per la quale si aggirano i protagonisti della serie, bensì nella suggestiva e controversa ipotesi avanzata dallo scienziato giapponese Masahiro Mori nel 1979 e battezzata uncanny valley, che significa letteralmente “valle perturbante“.
Secondo Mori la sensazione di familiarità generata dai robot aumenta costantemente al crescere della somiglianza con l’anatomia umana. Oltre una certa soglia, l’eccesso di realismo innesca tuttavia un brusco crollo delle reazioni emotive e dunque il rigetto basato sulla compresenza di qualcosa di familiare ed estraneo allo stesso tempo. In altre parole, un androide antropomorfo le cui movenze, mimica o gestualità risultino poco naturali, è percepito dalle persone come più inquietante di un robot su ruote.
Un esempio è il celebre Germinoid costruito dal progettista giapponese Hiroshi Ishiguro a propria immagine e somiglianza — tanto da risultare indistinguibile — ma precipitato nella uncanny valley a causa dei movimenti bruschi, l’assenza di contatto visivo con l’interlocutore e l’eccessivo ritardo nelle risposte.
Miglior comunicazione per colmare il divario
I ricercatori hanno compreso da tempo che per superare questa zona di repulsione, e traghettare i robot nella regione di empatia al cui vertice c’è un essere umano in piena salute, non è sufficiente lavorare sull’aspetto esteriore. Serve un significativo miglioramento. A cominciare dalle capacità comunicative, sia verbali sia non verbali, che devono risultare il più possibile naturali.
Invece di parlare in tono cordiale mantenendo il sorriso, un androide canny possiede un’espressività dinamica, cerca il contatto visivo, enfatizza le parole con la gestualità e compie lievi movimenti del capo. Per fare ciò il robot deve comprendere il contesto della conversazione e quindi costruire modelli su convinzioni, desideri e intenzioni dell’interlocutore; condividere una base di conoscenze in comune; possedere almeno una rudimentale autocoscienza.
Queste operazioni sono possibili solamente in presenza di spiccate capacità di ragionamento e apprendimento. Quanto spiccate? La riflessione di Murphy si sposta inevitabilmente sull’etica.
È corretto tenere in schiavitù un’entità dotata di raziocinio, anche se artificiale, come accade in Westworld? Negli ultimi anni, il dibattito ha vissuto una brusca accelerazione sull’onda dei crescenti investimenti nell’industria delle sex dolls. Progresso e commercio sono generalmente più rapidi dei legislatori. Perciò, l’Arabia Saudita ha preventivamente concesso la cittadinanza a Sophia, l’androide sociale sviluppato da David Hanson, mentre altri Paesi sono corsi al riparo vietando la produzione o l’importazione di bambole sessuali in formato bambino.
Presto o tardi una qualche forma di tutela legale dovrà essere raggiunta. Per proteggere la società dai robot. Ma anche gli stessi robot.
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