Gli occhi della NASA sulla corona solare
Ovvero, come utilizzare stazioni spaziali e algoritmi di elaborazione di nuova generazione per svelare uno dei misteri del nostro sistema solare: l'apparente paradosso della temperatura della corona solare.
SCOPERTE – L’osservazione del cosmo è, da millenni, un’attività che ha consentito all’essere umano di aumentare la propria conoscenza mediante l’utilizzo di vari strumenti. Grazie all’evoluzione della scienza e della tecnologia, questi strumenti sono diventati sempre più sofisticati. Tuttavia, esistono alcuni fenomeni le cui misure ed analisi sono particolarmente difficoltose, a causa di alcune condizioni al contorno difficilmente aggirabili.
Un esempio su tutti è rappresentato dalla cosiddetta corona solare, ossia la parte più esterna della regione gassosa, o atmosfera stellare, che circonda il nostro Sole e in generale le stelle.
Come si studia la corona solare
Il problema principale nella sua osservazione è che in condizioni normali la corona solare è completamente nascosta e può essere di fatto catturata dagli strumenti astronomici solo durante un’eclisse totale di Sole, quando la frapposizione della Luna tra Sole e Terra blocca la parte principale dell’emissione luminosa.
In effetti la luce della corona solare è così fioca perché, pur raggiungendo temperature molto alte, resta milioni di volte meno densa rispetto alla superficie solare.
Qui, però, arriva un apparente paradosso: pure essendo più fioca, meno densa e più lontana dal nucleo, la corona raggiunge temperature anche migliaia di volte maggiori di quelle della superficie stessa del Sole. Una possibile soluzione di questo fenomeno controintuitivo è stata proposta grazie ai risultati della missione IRIS della NASA: mediante l’analisi spettrografica delle immagini catturate da una sonda in orbita intorno al Sole, è stato appurato che pacchetti di materiale estremamente caldo, provenienti dalla superficie, vengono iniettati nella corona, esplodendo e rilasciando energia sotto forma di calore. Secondo gli astrofisici questo potrebbe essere solo uno dei fattori che determinano le caratteristiche particolari di questa regione.
In generale, un’analisi approfondita della struttura della corona può rivelarsi di fondamentale importanza per comprendere più in dettaglio fenomeni non ancora del tutti chiari, come la propagazione dei venti solari verso la Terra e gli altri pianeti.
La nuova ricerca
Un team di ricerca guidato dal Southwest Research Institute, con ricercatori e scienziati del Naval Research Laboratory di Washington, dell’Università della California e della stessa NASA (Goddard Space Flight Center) ha pubblicato un articolo che illustra i risultati di una osservazione condotta dal Solar TErrestrial RElation Observatory (STEREO). Si tratta di una coppia di navicelle spaziali identiche destinate alla ricerca di relazioni causa-effetto tra le esplosioni solari rilevabili in prossimità del Sole e loro effetti in prossimità del nostro pianeta.
Il team di ricerca ha dovuto fare i conti con il cosiddetto rumore sovraimpresso alle immagini catturate da STEREO, ossia con gli effetti legati alle emissioni luminose provenienti sia dallo stesso strumento di misura che dallo spazio esterno.
L’analisi dei dati
Per far questo ha sviluppato innovativi algoritmi di filtraggio per incrementare il cosiddetto rapporto segnale-rumore, in modo cioè da enfatizzare al massimo il contenuto di osservazione proveniente dalla corona, riducendo al contrario gli effetti parassiti di altre sorgenti. La coppia di navicelle, come occhi umani, ha consentito di osservare il fenomeno da punti di vista diversi, peraltro in movimento, e di isolare in modo più appropriato le caratteristiche utili dell’immagine.
Uno dei risultati più notevoli dello studio è relativo alla cosiddetta superficie di Alfvén: non è ben chiaro perché la superficie del sole, o fotosfera, abbia una temperatura di alcuni migliaia di gradi, mentre la corona solare, più esterna, arrivi a più di un milione di gradi.
Il confronto con i modelli teorici
Secondo uno dei modelli più diffusi, questo fenomeno è legato al fatto che la fotosfera, influenzata dal campo magnetico solare, emette onde di Alfvén (dal nome dello studioso che le ha teorizzate) che trasportano energia verso la corona: la direzione di propagazione è decisa dalla maggiore densità in prossimità della superficie, dalla quale le onde si propagano verso le regioni a minore densità. In questo modo grandi accumuli di energia possono essere liberati nello spazio più esterno, producendo un enorme riscaldamento della corona solare.
Il modello prevede inoltre che esista una superficie teorica, nota appunto come Alfvén surface, dove il vento solare viene gradualmente accelerato grazie all’apporto energetico delle onde di Alfvén, raggiungendo la velocità critica che gli consente di liberarsi dall’attrazione solare.
In effetti, il vento solare non è che un flusso di particelle ionizzate emesse dal Sole, caratterizzato da una certa velocità, che grazie all’effetto di accelerazione dovuto all’apporto di energia da onde Alfvén, può superare la velocità di fuga, liberandosi nel cosmo oltre la sfera di influenza gravitazionale del Sole.
Sembra dunque non esista una ben definita superficie di Alfvén, che segna la discontinuità tra moti che restano confinati nei pressi del Sole, e quelli che invece riescono ad ‘evadere’: l’elaborazione delle immagini ha mostrato invece una zona di confine molto più estesa (zona di Alfvén) dove avviene gradualmente la separazione del vento solare dal Sole.
L’osservazione astronomica è fondamentale per comprendere appieno i fenomeni che avvengono nel nostro sistema solare, aiutando a caratterizzarlo per poter in futuro esplorare lo spazio vicino con maggiore cognizione e consapevolezza. Una svolta cruciale sarà proprio avere a disposizione le misure della prossima missione delle NASA, Parker Solar Probe, la prima di sempre che le raccoglierà direttamente dalla corona solare esterna.
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