Quando gli amanuensi europei si fecero artisti: luce sui manoscritti “illuminati”
Solo da pochi anni conosciamo meglio le tecniche della loro realizzazione, come è perchè furono prodotti in un certo modo, un segreto non ancora del tutto svelato.
ANNO DEL PATRIMONIO CULTURALE – C’è stato un tempo in cui gli accademici in Europa non erano solo custodi del sapere ma anche raffinati artisti, spinti dalla necessità di dare vigore e bellezza alla parola scritta. Molto prima del rinascimento o dell’invenzione della stampa, in epoca medievale, i monaci miniatori riuscivano a produrre particolari manoscritti decorati dall’impatto visivo pari solo a quanto si sarebbero visto secoli dopo con gli affreschi o nei giochi di luci delle più importanti cattedrali e monumenti religiosi. Erano i cosiddetti “manoscritti illuminati”, documenti, per lo più religiosi, che diventavano opere d’arte sorprendenti. Questi oggetti eccezionali sono i testimoni di influenze di retaggi culturali lontani, soprattutto orientali, ma rappresentano anche il simbolo di un’unicità europea durante l’evoluzione della cristianità.
Dietro gli Illuminated books c’è una tassello importante della storia del nostro continente, soprattutto in quella del Nord Europa, come testimoniato dal Libro di Kells conservato presso il Trinity College a Dublino. Eppure, solo da pochi anni conosciamo meglio le tecniche della loro realizzazione, come è perchè furono prodotti in un certo modo, un segreto non ancora del tutto svelato.
Ogni cosa è illuminata: dagli scrivani…
Nonostante la parola scritta fosse già conosciuta da millenni, fin dai sumeri, e la carta un’invenzione relativamente recente ma utilizzata dai cinesi ormai da secoli, l’Europa arrivò più tardi all’innovazione del libro. A spingere verso questo cambiamento fu principalmente la religione. I monasteri, le abbazie e i conventi diventarono i luoghi di produzione della maggior parte dei documenti medievali, dapprima probabilmente in Irlanda, successivamente nel resto delle isole britanniche e in Europa. In base alla regola di San Benedetto, databile al VI secolo, ogni monastero doveva infatti munirsi di un adeguato archivio di libri, la quasi totalità dei quali veniva prodotta negli scripturium, mentre raramente provenivano da fuori. Questi erano sostanzialmente manoscritti della Bibbia, di testi liturgici, delle vite dei santi, copie realizzate in gruppo dagli scrivani, ovviamente in latino, che venivano poi fatte viaggiare da un monastero all’altro per essere ricopiate ulteriormente e così via. Le pagine erano ottenute lavorando le pelli di animali e gli inchiostri dalla spremitura di noci, dalle cortecce d’albero, da ferro fuso e altri prodotti naturali. Non è un mistero che nei monasteri si era sottoposti a ritmi di lavoro pesantissimi – come è stato ben raccontato per esempio ne Il Nome della Rosa di Umberto Eco. Si trattava infatti di un lavoro di precisione, lungo e tedioso. Ai monaci era richiesto di lavorare ogni giorno utile senza interruzione, indipendentemente dal loro stato di salute o delle condizioni climatiche. Potevano sfruttare solo le ore del giorno, sperando in una buona illuminazione naturale e a occhio nudo, dal momento che era vietato l’uso di candele per il rischio molto alto che scoppiassero incendi.
…ai miniatori, e nei monasteri i libri prendono vita
Le tecniche di scrittura e le ricette degli inchiostri iniziarono a farsi più complicate quando alla figura dello scrivano venne affiancata quella del miniatore – dal latino minium, il minio, ovvero un ossido salino di piombo, rosso, usato nella fabbricazione di vetri a piombo, smalti e vernici. Questa figura aveva inizialmente l’incarico di decorare i capolettera dei capitoli di un testo, per poi assumere la responsabilità di rappresentare figure e scene più complesse e ricche di dettagli, in cui anche le lettere potevano essere colorate con pigmenti di varia natura e tintura, dei veri e propri quadri di dimensioni incredibilmente piccole ma estremamente rifiniti. La decorazione dei vangeli non era un semplice esercizio di stile e non aveva uno scopo puramente estetico. L’effetto finale doveva infatti aiutare il lettore a comprendere la natura trascendente del messaggio religioso, lasciando che potesse letteralmente vedere la luce e la bellezza delle parole dei sacri testi, come mai avrebbero potuto altrimenti. Per questa ragione venivano usati metalli preziosi come l’oro e l’argento, accompagnati da altre sostanze per garantire lucentezza. “Illuminare” i manoscritti era un impegno serio e importante, da cui poteva dipendere il prestigio e l’autorevolezza della chiesa se non addirittura la redenzione stessa dei fedeli che potevano averne accesso.
L’odissea del Libro di Kells
Anche se il lavoro era comunque al servizio della fede, non ci si limitava quindi più a scrivere o copiare un testo al fine di salvare l’opera originale, lavoro esclusivo dei primi monaci. Gli scrivani e i miniatori soprattutto, diventarono col tempo dei mestieri anche ben retribuiti, alla stregua di artisti. Con l’avvento dei “libri illuminati“, aumentò però anche l’onere della precisione nei dettagli nelle miniature e il lavoro si fece ancora più faticoso e oppressivo. Poteva succedere spesso che i giovani monaci lasciassero traccia delle loro fatiche con brevi note sulle pergamene: “Non vedo l’ora che questo strazio finisca” “Oggi non mi sento molto bene” “Questa pergamena ha di sicuro dei peli” sono alcuni degli sfoghi rintracciati per esempio tra le pagine del Libro di Kells, manoscritto illuminato tra i più famosi, forse il più iconico di tutti grazie anche a un film d’animazione ispirato alla vera storia del libro, candidato all’Oscar nel 2010, The Secret of Kells.
Il Libro di Kells è una copia dei quattro vangeli, prodotta a partire dall’800 circa, inizialmente dai monaci dell’ordine di San Columba di Iona, in Scozia, anche se le sue origini geografiche sono piuttosto incerte. Molto probabilmente, dall’isola di Iona è stato trasferito poi a Kells in Irlanda, per tenerlo lontano dalle razzie vichinghe che minacciavano all’epoca la Gran Bretagna, e che avevano costretto i superstiti dell’abbazia a mettersi in viaggio. Di lì in poi, nella storia del libro, che si è forse anche allontanato da Kells, si avvicenderanno punti oscuri e sventure, tra le incertezze storiografiche sulla sua effettiva struttura – uno studio recente afferma che è stato effettivamente concepito come unico volume – e una lunga serie di incendi da cui si è fortunosamente salvato, fino alla perdita delle sue tracce tra le cronache per poi riaffiorare nel XVII secolo, quando fu messo definitivamente al riparo a Dublino.
Un’icona di modernità
Il libro è giustamente considerato un capolavoro, l’apice dello stile dei manoscritti miniati “illuminati”, per la ricchezza di colori e dettagli nelle prefazioni ai vangeli e nelle singole pagine. Nelle 340 pagine di pergamena, dieci sono disegni a pagina intera che riportano i simboli degli evangelisti, scene narrative complesse, tra cui il famoso Chi-Ro, monogramma delle lettere di Cristo in greco antico; tra le circa duemila lettere capitali decorate, non ce n’è una uguale a un’altra. Il Book of Kells è inoltre considerato un riferimento per tutta la cultura europea che iniziava a nascere con il cristianesimo: per la prima volta, i cosiddetti marginalia dei testi sacri, commenti posti ai margini delle pagine che stemperavano la serietà dei contenuti del testo, diventavano qui centralia in coerenza con un certo spirito moderno insulare e irlandese in particolare. In questo senso, il libro di Kells era il prodotto di una cultura straordinariamente moderna, a cui si sarebbe ispirato molti secolo dopo James Joyce nel suo Finnegans Wake. Ma i vangeli di Iona-Kells non sono l’unico esempio, diversi altri manoscritti illuminati conservati in Europa ci dicono molto circa la modernità delle tecniche utilizzate dai maestri miniatori, oltre che dei contenuti.
Luci dal passato: dai libri delle ore alla collezione Fitzwillian
Nell’imponente archivio del Trinity College, a fianco del libro di Kells, si trovano altri sette vangeli manoscritti, quattro dei quali – altrettanto importanti anche se non così famosi – sono stati analizzati, studiati, digitalizzati e esposti al pubblico: Book of Mulling, Book of Dimma, Garland of Howth, Codex Usseranius Primus. Dei manoscritti illuminati prodotti tra l’VIII e il XIX secolo (anche dopo l’invenzione della stampa), molti sono ancora conservati nei musei europei e degli Stati Uniti. La National Library of Netherlands per esempio conserva 450 manoscritti, in California e a New York fin dagli anni’70 sono stati esposti diversi esempi di Libri delle Ore, guide preziose e importanti per le liturgie delle ore medievali. Già nel 1997, con una mostra alla Pierpont Morgan Library di New York , si poneva il problema di come preservare al meglio questi testi così particolari. Il primo passo tuttavia, deve essere quello di conoscere bene la composizione materica dei manoscritti, dal supporto ai colori utilizzati. Ovvero, è indispensabile fare della buona diagnostica, soprattutto per oggetti così riccamente rifiniti.
La stessa esibizione del Libro di Kells a Dublino è accompagnata dai risultati ottenuti sugli inchiostri, principalmente di tipo ferrogallico; sui pigmenti, colorante indaco ottenuto dal guado per il blu, gesso per il bianco, orpimento per il giallo, succo di roccella tintoria per il viola.
Un lavoro ancora più vasto è stato condotto presso il Fitzwilliam Museum a Cambridge, Regno Unito. Qui infatti ha sede la più grande collezione europea di manoscritti illuminati, dall’800 fino al rinascimento, e la più ricca di manoscritti in generale, coprendo circa quattro millenni di storia.
Grazie a MINIARE (Manuscript Illumination: Non-Invasive Analysis, Research and Expertise), un progetto finanziato dall’Arts Council England che ha visto anche la partecipazione dell’ICIS-CNR di Padova, da questo inestimabile archivio è stato possibile fare un grosso passo in avanti nella conoscenza delle tecniche usate dagli artisti medievali prima dell’introduzione della stampa. Dal 2016, venti manoscritti sono accessibili online sul sito Illuminated: manuscript in the making.
Per illuminare serve un (lungo) lavoro di squadra
Paola Ricciardi è la ricercatrice associata responsabile del laboratorio di diagnostica del Dipartimento Manoscritti del Fitzwilliam per MINIARE, impegnata in particolare in riflettografia a fibra ottica. Questa è una tecnica ormai ben nota in conservazione dei beni culturali. Si tratta di un tipo di spettroscopia, da usare accompagnata ad altre tecniche similari, non invasiva che consente cioè di analizzare la composizione chimica dei colori solo leggendo la luce riflessa dal reperto, come si fa abitualmente con i dipinti o gli affreschi. I risultati ottenuti da Ricciardi e dal suo gruppo ci dicono infatti che gli ingredienti e le tecniche usate per i manoscritti sono molto simili a quelle delle botteghe dei pittori. I dati suggeriscono quindi che veri artisti erano probabilmente ingaggiati per questi lavori, o comunque condividevano il loro sapere ai monasteri.
Illuminare i manoscritti era insomma un lavoro di squadra, e analizzare i singoli dettagli può far luce sulla provenienza delle maestranze e dei materiali utilizzati. Per esempio, dai “pentimenti” – esattamente come nei dipinti su tela – la lettura di una nota (“himmel”, cielo) su una pergamena ha rivelato che l’artista era tedesco, sebbene lavorasse a Parigi. Conosciamo molto anche sui colori utilizzati, così come hanno fatto gli studiosi al Trinity College. C’è tuttavia ancora tanto da imparare. Come dichiarato da Ricciardi “La tavolozza degli illuminatori è decisamente omogenea, ma ci sono delle variazioni del tempo. Solo analizzando un alto numero di libri potremo sapere quando e perchè ci sono state variazioni nel tempo. Per quali ragioni per esempio si è preferita la malachite al verderame, usata prima per secoli”.
Sono diverse le identità da dare ai libri illuminati per comprenderne il quadro generale e capire cosa progettavano nei monasteri europei in pieno medioevo. La strada è aperta, ma bisogna ancora studiare a lungo.
Chissà cosa penserebbero i tanti monaci scrivani, i miniatori, gli abati, se sapessero che oggi basta un piccolo laboratorio portatile e anche un solo accademico per svelarne i segreti.
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