Centenari di Trieste, protagonisti degli studi sulla memoria semantica
Una chiacchierata con Miriam Vignando della SISSA, che ha studiato la memoria semantica nei centenari servendosi di conoscenze particolari: quelle sul cibo.
TRIESTE CITTÀ DELLA CONOSCENZA – Dopo le ultime interviste dedicate a inquinanti ambientali, galassie, materia oscura ed entanglement, Trieste Città della Conoscenza cambia branca di ricerca: oggi parliamo di memoria semantica, ovvero la memoria che “immagazzina” conoscenze generali sulla realtà che ci circonda e non legate a uno specifico luogo o tempo, come avviene invece con la più famosa memoria episodica. È la memoria semantica a permetterci, ad esempio, di ricordare cosa è il cibo mentre guardiamo un piatto di pasta, o cosa è una pianta mentre innaffiamo il ficus.
Una branca della ricerca particolarmente affascinante la studia negli anziani centenari. Perché questa popolazione in particolare? A differenza della memoria episodica, che con l’invecchiamento declina – a prescindere dalla presenza di demenze – quella semantica tende a restare più o meno stabile anche in età molto avanzata. Riscontrare dei deficit potrebbe quindi essere un valido campanello d’allarme per valutare il declino cognitivo, e motivare un approfondimento attraverso ulteriori test. Ma con le persone molto anziane, dagli 89 anni in poi, la situazione si fa complessa. Ne parliamo con Miriam Vignando, neuropsicologa della SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste.
Nome: Miriam Vignando
Nato a: Gallarate, Lombardia
Formazione: neuroscienziata
Gruppo di ricerca: Insula Lab
Lavoro a: SISSA, Trieste
Cosa amo di più del mio lavoro: Da piccola volevo fare l’investigatrice e la scienza mi ha consentito di farlo, in un modo inaspettato. Quello che amo di più di questo lavoro è che mi permette di
unire il lavoro teorico e l’analisi dei dati alla clinica neuropsicologica, l’altra mia grande passione.
Di cosa ti occupi nella tua attività di ricerca, nello specifico?
L’ambito si chiama neuropsicologia: è una scienza piuttosto antica ed è nata nell’800, quando ci si è resi conto che nei pazienti che mostravano un certo tipo di comportamento – ad esempio un difetto nel linguaggio – le analisi port mortem rivelavano una specifica lesione cerebrale. In pratica è la branca della psicologia che si occupa di studiare un comportamento sulla base dell’integrità o del danno a una specifica area del cervello.
Io lavoro soprattutto sulla memoria semantica. È diversa da quella che conosciamo come “memoria”, ovvero la memoria episodica che risponde a domande come “cosa ho mangiato ieri sera?” o “come si chiama il cane del mio migliore amico?”. Per la memoria semantica si tratta invece di “cosa è la cosa che ho mangiato ieri?” o “cosa è un cane?”, quindi conoscenze relative a concetti e categorie. Passando al processo patologico: abbiamo pazienti con demenza semantica, una delle varie tipologie con cui si presenta una malattia più ampia nota come malattia fronto temporale. È una patologia neurodegenerativa con diversi possibili esoridi, tra i quali il comportamento. Ci sono pazienti perfetti dal punto di vista delle funzioni cognitive, per memoria o linguaggio, ma che nel giro di poco tempo diventano più irascibili, più estroversi o più disinibiti.
La particolarità della demenza semantica è che – a differenza dell’Alzheimer, dove troviamo deficit di memoria episodica – è che esordisce come unica problematica. Ci sono pazienti con memoria personale anche molto buona e grossi deficit in quella semantica. Sanno cosa hanno mangiato il giorno prima, ma non ricordano i nomi o le funzioni degli oggetti. Altri non sanno cosa hanno fatto il giorno precedente o cinque minuti prima, ma sanno nominare correttamente gli oggetti. C’è proprio una differenza tra i due tipi di memoria, ed è per questo che l’abbiamo studiata.
Sei la prima autrice di uno studio che ha indagato la memoria episodica sui centenari. Raccontaci di cosa si tratta, e perché il tuo gruppo di ricerca si è concentrato su una popolazione così specifica.
Ci sono diversi motivi. Il Comune di Trieste era particolarmente interessato a questa popolazione perché in città sono molti, in più abbiamo avuto la fortuna di collaborare con il progetto CAT (Centenari a Trieste) coordinato da Gabriella Marcon e Mauro Tettamanti. Partiamo da un presupposto: scientificamente non sappiamo dire cosa sia un “centenario”, è misterioso. Ci sono persone con demenza avanzata, ma anche altre con evidenti problemi di memoria e allo stesso tempo non dementi. Volevamo inquadrare cosa sia un centenario al di fuori degli strumenti tradizionalmente impiegati, perché i test classici non sono adatti a valutare le persone oltre i 90 anni. Eppure, come ha confermato un recente rapporto ONU, nei prossimi decenni la popolazione degli ultra 90enni sarà sempre più numerosa.
La memoria semantica non è mai stata studiata nei centenari se non con approcci molto standard e usando come popolazione di controllo anziani più “giovani”, intorno ai 70 anni. Ma conoscendo il declino cui è destinata una funzione cognitiva possiamo usarla come parametro: se so che la memoria episodica declina in ogni caso dai 65-70 anni in poi, per la memoria semantica è diverso. Resta abbastanza lineare fino a quando siamo molto vecchi, dunque trovare un test sensibile – per vedere se declina anche in una persona più giovane, magari un 70enne – può fornirci dei campanelli d’allarme o un marker per approfondire con altri esami.
Allo stesso tempo il mio capo, la professoressa Raffaella Rumiati, si occupa di ricerca sul cibo, per capire come l’alimentazione influenza le capacità cognitive e come gli alimenti vengono percepiti dal punto di vista cognitivo. Rispetto a 50 anni fa siamo inondati da immagini di cibo, pubblicità, consapevolezza. La percezione è cambiata, perciò abbiamo deciso di somministrare dei test con diversi stimoli, alcuni alimentari e altri no. Il più classico è mostrare un’immagine e chiedere di cosa si tratta: così si valuta la capacità di riconoscere ciò che si vede e di produrre un nome. Se mostro una mela e ottengo una risposta come “ah quello è un frutto ma non ricordo bene” si tratta di disnomia, sai cosa è ma difficoltà a produrre la parola, mentre “quello è quella cosa che si mangia” indica un problema semantico.
È un test informativo che permette analisi approfondite e lo abbiamo somministrato a 18 centenari dai 100 ai 108 anni, ma anche a un gruppo di persone tra i 51 e i 75 anni e uno di grandi anziani, soprattutto 80enni. Così abbiamo scoperto che gli anziani più giovani sono più bravi a denominare e riconoscere cibo trasformato – ciambelle, patatine, caramelle – rispetto a quello naturale – frutta, verdura… – mentre per i centenari avviene l’opposto.
E questo cosa ci dice?
In pratica la frequenza con cui è stato consumato un tipo di cibo – naturale o trasformato – è un predittore statistico della performance delle persone nel riconoscerlo. Gli abbiamo chiesto “quanto spesso hai mangiato nella tua vita questo alimento?” e potevano rispondere mai/ spesso/ raramente. I “giovani anziani” e gli 80enni avevano mangiato entrambi i tipi di cibo in egual misura, mentre i centenari avevano mangiato molto più spesso cibi naturali: vi sono venuti a contatto prima e li hanno mangiati per un periodo più lungo. Entra in gioco anche l’età di acquisizione, perché è conoscenza ormai consolidata nelle neuroscienze che tanto prima impariamo il nome di un oggetto tanto più tardi lo dimenticheremo.
A livello teorico il risultato importnate è che le esperienze di vita modellano la memoria semantica, una cosa che era già stata proposta – ma non misurata – in uno studio degli anni ’70. Nei test di memoria semantica la performance dei centenari peggiorava, ma non troppo, se non per i test di denominazione. Elaborando quindi dei test a doc legati al nome delle cose potremmo avere un ottimo marcatore comportamentale per certi tipi di neurodegenerazione.
Ora state lavorando a un altro studio sul tema, di che si tratta?
Vogliamo scoprire quali parti del cervello sono responsabili della memoria semantica legata al cibo, e se c’è una relazione tra la memoria semantica e i disturbi alimentari che entrano in gioco nelle demenze. È molto importante studiare questa memoria per categorie speciali, il cibo ma non solo, perché ci dice molto sul declino della funzione e dei comportamenti che ne derivano. Se non so bene cosa è il cibo posso avere comportamenti problematici con gli alimenti, come il picacismo.
Ci dicevi che uno dei “problemi” nello studio scientifico dei centenari è che i normali test usati con la popolazione anziana non sono più adatti superati gli 89 anni. Come mai?
Pensiamo a uno dei test neuropsicologici più usati, il mini mental state examination, che si fa in tutti gli ambulatori cognitivi. Ha un massimo punteggio di 30 su 10-15 domande, è molto breve: si tratta di uno screening cognitivo globale che inquadra se una persona ha un deficit cognitivo o no. Viene corretto per età e scolarità: se hai 85 anni e fatto cinque anni di scuola elementare, ad esempio il test ti viene corretto in modo più leggero rispetto a un coetaneo che di anni di scuola ne ha fatti 18. Si presuppone che tanto più uno ha studiato tanto più sarà protetto rispetto al declino cognitivo, soprattutto per test su memoria verbale, sottrazione numerica e simili. Un 85enne avrà una correzione più blanda rispetto a un 70enne, mentre una persona al di sopra degli 89 anni non ha alcuna correzione: non c’è modo di “tarare” il test e va preso il risultato grezzo.
Immaginiamo sia una persona di 105 anni, che vede e sente poco, fatica a scrivere e ha fatto due anni di scuola elementare. Tutti questi fattori non possono essere statisticamente presi in considerazione. Quando si valuta un centenario è sempre molto difficile valutare se sia in atto un processo neurodegenerativo o meno, perciò un neurologo indica su una scala da 0 a un certo punteggio il grado di demenza che ritiene più adatto.
Ci sono altri limiti quando si studiano popolazioni molto anziane?
Quello che mi piace di più della neuropsicologia è che è impossibile praticarla senza l’aiuto dei partecipanti volontari ai nostri studi, sia gli anziani sani, sia i centenari, sia i pazienti con malattie
neurodegenerative, senza il cui aiuto la ricerca non potrebbe procedere.
I centenari però non sono mai tanti, dunque lavoriamo con campioni piccoli: possiamo fare statistiche affidabili ma rispetto a uno studio epidemiologico – con migliaia di partecipanti – noi ne abbiamo poche decine. Devi veramente fare i conti col fatto di avere campioni ristretti. Il progetto CAT si occupa di studiare i centenari in modo multifattoriale: quelli cieci, quelli sordi, quelli con demenza, quelli senza. È uno studio epidemiologico, mentre il nostro è sperimentale. Noi abbiamo bisogno di centenari senza disturbi visivi come glaucoma o cataratte, senza disturbi uditivi gravi, senza demenza.
La speranza per il futuro è che questa linea di ricerca, piuttosto faticosa e nota per essere lenta – perché la raccolta dati è lunga e impegnativa – è il modo migliore per studiare come cambiano le funzioni cognitive con l’invecchiamento. Un’altra cosa importante da fare è il follow up, per vedere come la capacità semantica cambia nel tempo, anche ad esempio misurando l’atrofia cerebrale dei pazienti in diversi momenti, a distanza di anni.
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