Se il cibo ci aiuta a capire il cervello
Alla SISSA di Trieste il gruppo di ricerca guidato da Raffaella Rumiati studia come il cibo può aiutarci a rispondere ad alcune delle classiche domande delle scienze cognitive
TRIESTE CITTÀ DELLA SCIENZA – Oggi inauguriamo una rubrica dedicata alla ricerca che si svolge a Trieste, per raccontare da vicino il territorio, gli enti scientifici, i tanti ricercatori italiani e stranieri che qui lavorano e contribuiscono a fare di Trieste una Città della Scienza.
Nel “secolo del cibo” l’alimentazione è diventata una vera e propria scienza, non solo fine a se stessa ma anche utile per comprendere sempre meglio il funzionamento di quella macchina complessa che è il nostro corpo. Un esempio di questa mixture è il campo delle neuroscienze, e proprio a Trieste da qualche anno i ricercatori della Scuola Internazionale di Studi Avanzati (SISSA) stanno studiando come il cibo può servire per cercare di rispondere ad alcune delle classiche domande delle scienze cognitive.
L’idea alla base di questo filone di ricerca è quella secondo cui studiare come l’essere umano si rappresenta il cibo e lo interpreta (ovvero come i concetti dei diversi cibi sono rappresentati dal cervello umano) e come decidiamo cosa mangiare ci può mostrare qualche lato al momento ignoto degli effetti di malattie neurodegenerative quali il morbo di Parkinson e vari tipi di demenze. Inclusa quella di Alzheimer. Soffrire di una malattia neurologica significa soffrire di disturbi cognitivi e del comportamento, compresi i comportamenti alimentari, che provocano a loro volta degli scompensi fisici a partire da una importante incidenza di disturbi alimentari, l’obesità tra tutti. Diverse ricerche, negli anni, hanno sottolineato la correlazione nelle persone tra la presenza di malattie neurologiche (per esempio quei pazienti con il morbo di Parkinson che vengono sottoposti a deep-brain stimulation perché la sola terapia farmacologica si è rivelata inefficace) e una maggiore incidenza di casi di obesità, quindi di rischio di sviluppare ulteriori malattie croniche. Basti pensare ai malati di Alzheimer, che possono avere enormi difficoltà nello stesso riconoscimento del cibo.
Questo filone di ricerca è ancora in fase iniziale, ed è fondamentale chiarire se e in che modo il cibo viene concettualizzato e categorizzato dal nostro cervello, se in modo analogo o diverso rispetto agli altri stimoli a cui siamo sottoposti. Insomma: per il nostro cervello avere davanti una mela o un coltello è la stessa cosa o esistono dei meccanismi “automatici” che classificano i due stimoli in due categorie differenti? È questa la domanda a cui sta cercando di rispondere il gruppo di ricerca coordinato da Raffaella Rumiati, che ha pubblicato in questi giorni su Brain and Cognition gli ultimi risultati del proprio lavoro, che si proponeva di valutare la conoscenza lessicale-semantica sul cibo. Ciò che i ricercatori hanno evidenziato è che sì, siamo istintivamente portati a considerare il cibo come uno stimolo diverso rispetto agli oggetti che non hanno per noi questa funzione. I concetti che rappresentano alimenti tendono a resistere meglio al danno cerebrale rispetto a quelli che rappresentano prodotti non alimentari.
“Per noi si tratta di una vera e propria miniera d’oro di informazioni, che ci possono aiutare a comprendere meglio il nostro cervello” racconta Raffaella Rumiati a OggiScienza. “Lo studio del ruolo del cibo è un ambito di ricerca a cui le neuroscienze stanno guardando con particolare e crescente interesse, tanto che alla stessa SISSA sono arrivati nel 2015 ben 500 mila euro dalla Regione Lombardia per sviluppare proprio dei progetti di ricerca che avessero come focus il cibo”.
Già nel 2015 il team triestino aveva pubblicato alcuni risultati, mettendo in luce la peculiarità del cibo nella catalogazione degli stimoli da parte del cervello umano nei processi decisionali. Ma qui si va oltre. In questo nuovo studio i ricercatori hanno studiato due gruppi di pazienti, il primo composto da malati di Alzheimer e il secondo da pazienti che soffrono di Afasia Primaria Progressiva (PPA), un disturbo che comporta la progressiva perdita delle capacità linguistiche. La scelta dei due gruppi non è casuale, ma è servita per studiare la relazione fra memoria semantica e linguaggio relativo agli stimoli alimentari. I malati di Alzheimer riportano infatti problemi cognitivi generali, mentre gli affetti da PPA mostrano difetti preferibilmente a livello di produzione linguistica.
“I compiti che abbiamo assegnato ai partecipanti allo studio sono di tre tipi: categorizzazione, comprensione e denominazione, scelti perché tutti e tre comportano delle competenze semantiche, cioè di attribuzione di significato”, prosegue Rumiati. Durante gli esperimenti di categorizzazione venivano mostrate due foto di prodotti alimentari e altre due di prodotti non alimentari (ma comunque legati al mondo della cucina) e si studiava se i pazienti classificavano le immagini allo stesso modo, mentre nella fase di analisi della comprensione gli sperimentatori pronunciavano un nome gli individui dovevano indicare l’alimento corrispondente. “In entrambe queste fasi il risultato è stato netto: se si parla di cibo i malati sono più accurati nella classificazione rispetto alle coppie di immagini che non rappresentavano del cibo”. Al contrario, nella fase di denominazione -l’unica che richiedeva una risposta linguistica da parte dei pazienti- gli scienziati non hanno osservato una differenza fra le risposte riferite alle immagini di cibo e le altre.
“Abbiamo inoltre notato un altro elemento interessante, che è la vera novità di questo studio. I pazienti con Alzheimer denominano più accuratamente le immagini che si riferiscono a un cibo lavorato dalle persone, per esempio un piatto di pasta, rispetto a prodotti non lavorati o cucinati, per esempio alle immagini di una mela o di una melanzana. Secondo noi questo è dovuto al fatto che il cervello pare dare maggiore rilevanza a ciò che è più calorico”. I ricercatori hanno inoltre osservato che a seconda dell’indice di massa corporea (Body Mass Index, BMI) i partecipanti tendono a prestare maggiore o minore attenzione al cibo che hanno davanti, a seconda del fatto che sia naturale o trasformato e delle sue caratteristiche sensoriali piuttosto che a quelle funzionali. “Quest’ultimo è il risultato di uno studio al momento in fase di revisione, che speriamo di poter pubblicare presto”.
I passi in avanti sono dunque molto interessanti, ma siamo ancora in una fase iniziale nella comprensione di questi meccanismi. “Una volta accumulata maggiore conoscenza in merito sarà fondamentale informare adeguatamente gli operatori sanitari che i comportamenti, anche quelli delle persone affette da malattie neurologiche, hanno delle spiegazioni scientifiche. Speriamo che in futuro ciò possa portare alla messa a punto di nuovi protocolli per il trattamento di questi pazienti”.
Carta d’identità
Nome: Raffaela Ida Rumiati
Età: venerabile
Nata a: sul Po
Lavoro a: SISSA/ANVUR
Formazione: Laurea in filosofia con indirizzo psicologico e dottorato in psicologia
Ricerca: Neuroscienze cognitive
Istituto: Area di Neuroscienze – SISSA
Il mio gruppo di ricerca: fino a settembre il mio laboratorio era composto di 15 persone tra studenti di dottorato e giovani ricercatori.
Cosa amo di più del mio lavoro: costatare come a volte gli studenti alla fine del PhD diventino ricercatori migliori di me.
La sfida principale nel mio ambito di ricerca: ricondurre l’origine di funzioni mentali e comportamenti anche molto complessi al sistema nervoso centrale, tenendo conto anche dell’ambiente.
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