Françoise Barré-Sinoussi, l’AIDS e la scoperta dell’HIV
L’AIDS è causata dall’HIV: il merito di questa scoperta, nel 1983, fu di un team dell’Istituto Pasteur di Parigi guidato da Luc Montagnier e Françoise Barré-Sinoussi.
Secondo gli ultimi dati di UNAIDS, istituto dell’ONU che si occupa di studiare, prevenire e combattere l’AIDS, oggi nel mondo vivono circa 37 milioni di persone sieropositive. I nuovi infetti sono quasi 2 milioni ogni anno, di cui 150.000 bambini, e solo poco più del 50% di chi vive con l’HIV si sottopone a cure e terapie.
In molti ottengono una diagnosi quando ormai è troppo tardi: nel 2017 il numero complessivo di morti per patologie connesse all’AIDS – pur essendo in diminuzione rispetto agli anni precedenti – ha sfiorato il milione. E i morti totali dal 1981, anno in cui la malattia ha iniziato a diffondersi, sono oltre 35 milioni. Una cifra impressionante. Eppure dell’AIDS si parla ormai molto poco, come se si trattasse di un fenomeno del passato, quantomeno nei paesi industrializzati. Non è così. In Italia, secondo gli ultimi dati forniti dall’Istituto Superiore di Sanità, risalenti al 2016, vivono circa 130.000 sieropositivi e l’incidenza più alta di nuovi casi riguarda la fascia d’età che va dai 25 ai 29 anni, segno che nelle nuove generazioni è venuta meno la consapevolezza dei rischi legati al contagio.
L’AIDS, sindrome da immunodeficienza acquisita, è causata dall’HIV, un virus che attacca e indebolisce progressivamente il sistema immunitario, compromettendone il funzionamento. Il merito della scoperta, che risale al 1983, è di un team dell’Istituto Pasteur di Parigi guidato da Luc Montagnier e Françoise Barré-Sinoussi. Quest’ultima, all’epoca una giovane ricercatrice, è oggi una delle più importanti virologhe viventi. Premio Nobel per la medicina nel 2008, ha dedicato l’intera carriera allo studio dell’AIDS, focalizzando la sua attenzione, soprattutto negli ultimi anni, sullo sviluppo di una strategia globale – in grado di coinvolgere scienziati, medici, pazienti, comuni cittadini e istituzioni – volta alla cura e alla prevenzione di questa malattia.
Le prime ricerche
Françoise Barré-Sinoussi nasce a Parigi nel 1947. Da bambina trascorre le vacanze estive nelle campagne dell’Alvernia, regione della Francia centrale, osservando le meraviglie del mondo naturale. La fascinazione per la natura l’accompagnerà per tutta la vita, tanto che dopo il diploma, indecisa tra la facoltà di medicina e quella di scienze naturali, opterà per quest’ultima.
Durante i primi anni universitari, fra il 1966 e il 1968, entra in contatto con le ricerche condotte in laboratorio e il suo interesse primario si sposta gradualmente dalle scienze naturali alla biochimica. Durante l’ultimo anno di specializzazione, nel 1971, cerca di entrare come volontaria presso uno dei tanti laboratori presenti nel Paese. Decine di tentativi si rivelano infruttuosi, ma alla fine riesce a trovare un laboratorio disposto ad accoglierla come volontaria. Si tratta del centro di immunologia dell’Istituto Pasteur di Parigi, guidato dal virologo Jean-Claude Chermann. È questo il momento cruciale per la sua carriera e la sua vita futura, il punto di svolta che la condurrà, alcuni anni dopo, alla scoperta per cui vincerà il Nobel.
Chermann, che in quel periodo sta conducendo studi sulla relazione fra retrovirus e tumori nei topi, le trasmette una tale passione per la ricerca che Barré-Sinoussi quasi dimentica di frequentare l’università. Trascorre tutto il suo tempo in laboratorio e si presenta in facoltà solo per sostenere gli esami; si rende conto che è quello il suo ambiente naturale, il luogo in cui sente di esprimere appieno se stessa. Su richiesta di Chermann, si dedica all’analisi di una molecola sintetica denominata HPA23, in grado di inibire l’attività della trascrittasi inversa, enzima che segnala la presenza all’interno delle cellule di particelle retrovirali, appartenenti cioè a un gruppo particolare di virus, chiamati retrovirus, capaci di convertire il proprio genoma da RNA a DNA durante la fase di replicazione, integrandosi quindi nel genoma della cellula ospite. Dopo la specializzazione e il dottorato, che consegue nel 1974, la donna trascorre un periodo negli Stati Uniti, presso il National Cancer Institute del National Institutes of Health. Torna in Francia, nel 1978, per accettare di nuovo un incarico all’Istituto Pasteur.
La scoperta dell’HIV
All’inizio degli anni Ottanta si verificano, in diverse zone del mondo, i primi casi di una malattia destinata a trasformarsi in breve tempo in una vera e propria epidemia. Nella sua forma acuta, questa malattia porta a una compromissione totale del sistema immunitario, con febbre, ingrossamento dei linfonodi e il conseguente insorgere di numerose patologie, dalla tubercolosi alla neuro-toxoplasmosi, dall’esofagite da candida a diverse forme di tumori. Si contrae per via sessuale – tramite sangue, sperma e secrezioni vaginali – ma colpisce anche neonati infettati attraverso il latte materno e persone emofiliche sottoposte a trasfusione.
I primi casi accertati risalgono al 1981, anno in cui i CDC (Centers for Disease Control and Prevention) del governo americano registrano casi sospetti di polmonite da Pneumocystis carinii in cinque uomini gay, fino a quel momento sani, residenti a Los Angeles. Successivamente, negli Stati Uniti e in Europa si verificano centinaia di altri casi.
Nell’agosto del 1982, la malattia all’origine di questa piccola epidemia viene chiamata per la prima volta con quello che resterà il suo nome ufficiale: AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome). Non se ne conoscono però le cause. Un gruppo di clinici francesi – guidati da Françoise Brun-Vézinet, che aveva frequentato i corsi tenuti da Barré-Sinoussi e colleghi – decide di contattare il team di ricerca del Pasteur con lo scopo di comprendere l’origine della malattia.
L’ipotesi di partenza è che possa essere implicato HTLV (Human T-cell Leukemia Virus), l’unico retrovirus umano conosciuto all’epoca, causa della leucemia a cellule T. Françoise Barré-Sinoussi e Luc Montagnier, che guida l’unità di oncologia virale dell’Istituto, concentrano i loro sforzi in questa ricerca e, nel gennaio del 1983, analizzando i linfonodi di un paziente affetto da linfoadenopatia generalizzata, scoprono che in effetti la malattia è provocata da un retrovirus, ma che non si tratta di HLTV.
Riescono a isolare le cellule che rilevano l’attività della trascrittasi inversa e, estratte le particelle retrovirali, scoprono che queste sono in grado di infettare i linfociti prelevati da soggetti sani; a differenza di altri retrovirus oncogeni precedentemente identificati, il nuovo virus non provoca una crescita cellulare incontrollata, ma attiva la cellula per agevolare la sua stessa replicazione e indurre al contempo i linfociti T a fondersi in sincizi, ovvero cellule multinucleate.
Il 4 febbraio 1983 il retrovirus è osservato per la prima volta al microscopio elettronico e il 20 maggio dello stesso anno Barré-Sinoussi e colleghi pubblicano su Science l’articolo in cui annunciano la scoperta; chiamato in un primo momento LAV (Lymphadenopathy-Associated Virus), sarà rinominato HIV (Human Immunodeficiency Virus) nel 1986. Nel maggio del 1984, il virologo statunitense Robert Gallo, direttore dell’Institute of Human Virology dell’università del Maryland, conduce una serie di ricerche che portano a confermare in modo definitivo la correlazione tra il retrovirus e l’AIDS. Circa un quarto di secolo dopo, nel 2008, Françoise Barré-Sinoussi e Luc Montagnier riceveranno il premio Nobel per la loro scoperta, mentre Gallo – che si dirà amareggiato – verrà escluso.
Un’epidemia che non risparmia nessuno
Subito dopo la scoperta del virus, la coinvinzione generalizzata è che l’epidemia sia circoscritta alle cosiddette 4 H: homosexuals, hemophiliacs, heroin addicts e Haitians (omosessuali, emofiliaci, eroinomani e haitiani, popolazione particolarmente colpita in quel periodo). Ben presto, però, ci si rende conto che a essere coinvolta è anche una quinta H, gli heterosexuals, ovvero le persone eterosessuali. Tra il 1984 e il 1985, Françoise Barré-Sinoussi si reca in Africa e tocca per la prima volta con mano la realtà dell’AIDS.
Nella Repubblica Centrafricana e in altri paesi del continente, gli ospedali traboccano di pazienti che muoiono a causa della malattia. Nell’ottobre del 1985 muore di AIDS l’attore Rock Hudson, celebre sex symbol degli anni Cinquanta e Sessanta. In quel momento la percezione collettiva della malattia cambia radicalmente e si comincia a capire che non si tratta di un fenomeno limitato e circoscritto, né dal punto di vista geografico né per quanto riguarda lo status sociale o le abitudini di vita. Tutti sono a rischio, nessuno escluso.
Nel 1988 Barré-Sinoussi ottiene un suo laboratorio presso l’Istituto Pasteur e nel 1992 diventa direttrice dell’unità di biologia dei retrovirus, dove resta fino al 2015. Oltre a lavorare a una migliore comprensione della patogenesi dell’AIDS e dei meccanismi di controllo dell’HIV, nel corso degli anni il suo gruppo di ricerca avvia numerosi progetti, collaborazioni e scambi scientifici con i paesi africani e asiatici.
Spesso è lei in prima persona a promuovere azioni volte a una corretta comunicazione dei rischi connessi alla malattia e delle misure da adottare per evitare la diffusione del virus, soprattutto l’utilizzo del preservativo durante gli atti sessuali.
L’obiettivo a breve e a medio termine è quello di integrare una corretta comunicazione con ricerca, prevenzione e la messa a punto di terapie antiretrovirali sempre più efficaci, soprattutto nei paesi dell’Africa subsahariana, dove ancora oggi moltissime persone sieropositive non hanno accesso ad alcun trattamento e l’AIDS miete centinaia di migliaia di vittime ogni anno. L’obiettivo a lungo termine, invece, è sconfiggere definitivamente il virus.
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