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L’isolamento sociale ci sta uccidendo?

C'è una correlazione tra la solitudine e l'insorgenza di malattie cardiache come infarto e ictus. Ma stare soli ha anche altre conseguenze sulla salute.

SALUTE – Secondo quanto emerge da un ampio studio pubblicato su BMJ che ha esaminato 479 mila individui fra i 40 e i 69 anni, tutti presenti nella BioBanca britannica, le persone sane ma sole, senza cioè una rete familiare, amicale o sociale, sembrano avere statisticamente un rischio maggiore di eventi cardiaci come infarto del miocardio e ictus. Fra chi ha già avuto un evento di questo tipo in passato è invece maggiore la mortalità.

Crediti immagine: Pixabay

Cosa si intende per isolamento e solitudine?

Gli autori hanno posto agli intervistati tre domande per costruire una “scala” dell’isolamento sociale. La prima domanda era la seguente: “Compreso te stesso, quante persone vivono insieme nella tua famiglia?”; la seconda domanda “Quante volte vai a trovare amici o parenti o ti fanno visitare?” e infine “Quale delle seguenti attività ti impegna una volta alla settimana o più spesso?”.

Veniva attribuito un punto se la persona non mostrava nessuna partecipazione alle attività sociali con frequenza almeno settimanale; un punto se la persona viveva da sola; un punto per chi riceveva visite di amici e familiari meno di una volta al mese. In una scala da 0 a 3, la persona è stata definita socialmente isolata se totalizzava due o più punti. La solitudine invece è stata misurata attraverso due domande: “Ti senti spesso solo?” (No = 0, si = 1) e “Quante volte sei in grado di confidarti con qualcuno vicino a te?”.

Per quest’ultima domanda veniva attribuito un punteggio pari a zero se la risposta era “da quasi ogni giorno a una volta ogni pochi mesi” e 1 se la risposta era “mai o quasi mai”. Un individuo veniva definito “in solitudine” se rispondeva 1 ad entrambe le domande.

Il risultato del monitoraggio è stato che le persone che denunciavano isolamento sociale e solitudine avevano un rischio aumentato da 1,4 volte a 1,5 volte di essere colpiti da infarto o da ictus, ma non per strane recondite ragioni, ma perché chi è molto solo vive in media una vita meno sana. L’85% di questo eccesso di rischio è risultato attribuibile al fatto che le persone sole hanno tassi più alti di obesità, consumo di tabacco, bassa istruzione e quindi status socioeconomico basso e malattie croniche preesistenti.

Si tratta di risultati in linea con altri studi precedenti, ma mai era stato considerato un campione così ampio.

La situazione in Italia

In Italia l’ISTAT ha cercato di inquadrare lo scenario delle reti sociali attraverso i numeri. Il nostro paese ne esce bene rispetto alla media dell’area OCSE quanto a percentuale di persone con più di 15 anni che possono contare su una rete di aiuto: 91 italiani su 100.

È curioso però osservare una diminuzione dal 2016 al 2017 della quota di cittadini soddisfatti delle loro relazioni familiari (dal 34,6% al 33,2%), e di quelle amicali (dal 24,8% al 23,6%).

La carenza di relazioni con gli altri non significa necessariamente isolamento sociale, ma lo diventa nel caso degli anziani che non vivono insieme ai propri familiari, che restano soli per il 70% del tempo in cui sono svegli o che interagiscono con altre persone per meno di quattro ore al giorno.

Isolamento sociale e declino cognitivo

Il rapporto fra isolamento sociale e salute, in particolare in relazione al declino cognitivo, è stato al centro di due articoli pubblicati sul New York Times che hanno riscontrato un certo successo. Il primo – How social isolation is killing us (Come l’isolamento sociale ci sta uccidendo) – è stato pubblicato a fine 2016, mentre il secondo – The Surprising Effects of Loneliness on Health (L’effetto sorprendente della solitudine sulla salute) – alla fine del 2017.

Il primo dei due rivela che l’isolamento sociale sia un fenomeno in crescita. Dagli anni Ottanta, la percentuale di adulti americani che affermano di essere soli è raddoppiata: dal 20% al 40%. Circa un terzo degli americani con più di 65 anni ora vive da solo, e la metà di quelli con più di 85 anni.

Le persone con problemi di salute – specialmente quelli con disturbi dell’umore come ansia e depressione – hanno maggiori probabilità di sentirsi sole e chi non possiede un’istruzione universitaria ha meno probabilità di avere qualcuno con cui parlare di importanti questioni personali.

Il secondo articolo del NYT in particolare fa riferimento a uno studio recente che suggerisce addirittura che la solitudine potrebbe essere un segno preclinico per la diagnosi del morbo di Alzheimer. Usando i dati dell’Harvard Aging Brain Study su 79 adulti (un campione piccolo) i ricercatori hanno trovato un collegamento tra il punteggio ottenuto dai partecipanti su una valutazione con tre domande e la quantità di proteina amiloide accumulata nel loro cervello, uno dei principali segni della malattia.

Perché ci si isola?

È importante capire che la solitudine fra gli anziani ha radici diverse – spesso derivanti dall’allontanamento di familiari e amici. Come ha raccontato un anziano intervistato dal NYT “Il tuo mondo muore prima di te.”

Secondo una ricerca citata nel primo dei due articoli del NYT, la solitudine non è necessariamente il risultato di scarse abilità sociali o mancanza di sostegno sociale, ma potrebbe essere causata in parte da un’insolita sensibilità ai segnali sociali. Le persone solitarie hanno maggiori probabilità di percepire negativamente indizi relazionali ambigui e di entrare in una mentalità di autoconservazione, aggravando il problema.

In questo modo, la solitudine può essere contagiosa: quando una persona si sente sola, si ritira dalla sua cerchia sociale e fa sì che gli altri facciano lo stesso.

Il dottor John Cacioppo, professore di psicologia all’Università di Chicago, ha testato vari approcci per trattare la solitudine. Il suo lavoro ha rilevato che gli interventi più efficaci si concentrano sull’affrontare la “cognizione sociale disadattativa”, cioè aiutare le persone a riesaminare il modo in cui interagiscono con gli altri e percepiscono gli “indizi relazionali”. In questo senso sta collaborando con l’esercito degli Stati Uniti per esplorare se e come l’allenamento cognitivo può aiutare i soldati a sentirsi meno isolati dopo il ritorno a casa.

Gli approcci più gettonati per mitigare il senso di solitudine nell’anziano sono la partecipazione a corsi, l’adozione di animali domestici o l’organizzazione di servizi di volontariato per la compagnia. Un programma britannico, chiamato Befriending – racconta ancora il NYT – prevede per esempio che un volontario faccia visita regolarmente a una persona anziana sola. Il punto è che ad oggi, sebbene questi tentativi mostrino un modesto miglioramento per quanto riguarda la prevalenza di depressione e ansia nell’immediato, gli effetti a lungo termine sono ancora sconosciuti.

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.