Vent’anni fa prendevamo la pillola rossa di Matrix
Presentato a marzo negli Stati Uniti, Matrix degli allora fratelli Wachowski sbarcava in Italia nel maggio del 1999 cambiando la nostra idea di cinema di fantascienza.
Bologna, cinema Odeon di via Mascarella. Appena terminata la proiezione, ci accalchiamo sotto il portico: tutti abbiamo una faccia un po’ sbigottita, stralunata. Ci guardiamo l’un l’altro, non trovando le parole adatte, ma avendo in testa mille domande, mille gridolini di eccitazione. Perché è il maggio del 1999 e abbiamo appena visto qualcosa sullo schermo che non pensavamo si potesse vedere.
Abbiamo assistito a un momento storico della rappresentazione fantascientifica che segnerà – lo sentiamo, lo sentiamo subito – un prima e un dopo. Ci ha colpito il mix esplosivo di filosofia, religioni orientali, paranoia e pessimismo cyberpunk, e ci vorranno mesi per digerire tutto, catalogare i riferimenti così copiosi e così precisi. Ma prima di mille discussioni tra amici, in cui continuavamo a citarci a vicenda le battute di Neo, Morpheus, Trinity e tutti gli altri personaggi, siamo colpiti dalle scene di combattimento, da quegli slow motion che mostravano mosse da arti marziali impossibili per un comune mortale, fosse anche stato un incrocio tra Bruce Lee e Jean-Claude Van Damme.
Oggi, a vent’anni da quel momento storico, dopo che i fratelli Wachowski sono diventati le sorelle Wachowski e hanno raccontato altre storie per immagini (non ultima, quella della coraggiosa serie Sense8), di film che si rifanno a quella rappresentazione del mondo ne abbiamo visti fino alla nausea, al punto che alcune delle innovazioni visive di The Matrix sono diventate comuni anche fuori dalla fiction, basti guardare questo video omaggio al bullet time, la tecnica che permette a Neo di evitare i proiettili, pubblicato da Vulture:
Deformare il tempo come atto rivoluzionario
Quello che segue, invece, è un video in cui il supervisore degli effetti speciali di The Matrix John Gaeta spiega tecnicamente come funziona la tecnica del bullet time, accennando anche alle sue implicazioni filosofiche e alle sue conseguenze sulla narrazione:
In pratica, e Gaeta ne attribuisce l’originalità direttamente ai fratelli Wachowski, il bullet time permette di osservare la realtà (di The Matrix) da più punti di vista (quasi) contemporaneamente, come se lo spettatore diventasse improvvisamente altrettanto onnisciente quanto il narratore (in questo caso il regista) che gli sta raccontando la storia. Ma l’impiego di questa tecnica assomiglia tanto a una premonizione delle immagini a 360 gradi che oggi i nostri cellulari permettono di fare tanto facilmente, dando la possibilità a chi le osserva di avere l’impressione di essere immerso in quello che chi ha scattato l’immagine ha visto.
Se ci pensate, una bella metafora dà forma alla superiore coscienza della realtà che hanno i rivoltosi del film e che può essere fruita da chi guarda. E mandando a sbattere l’uno contro l’altro i diversi piani su cui la storia di The Matrix si sviluppa: la matrice, la realtà “fisica” e la nostra realtà di spettatori. È questo tipo di breccia che ha permesso di dare forza al mix di paranoia, complottismo, rivoluzione di cui parla il film: anche noi che siamo seduti in sala a guardare il film siamo parte della storia che viene raccontata, siamo anche noi dentro Matrix.
Oppure, in una suggestione un po’ azzardata che viene in mente a vent’anni da quel maggio, quelle scene al rallentatore possono essere paragonate alle arie del melodramma: il tempo si deforma, permettendo al cantante o alla cantante di esprimere attraverso la melodia le emozioni e i sentimenti in modo che lo spettatore possa identificarsi nel personaggio con maggiore facilità. Ed ecco Neo, nel leggendario combattimento con l’Agente Smith nella stazione della metropolitana, che in uno slo-mo esce dal flusso temporale principale della narrazione e ci fa capire che lui vede la Matrice, così che anche noi possiamo capire. E magari ci guardiamo attorno, alla ricerca di uno di quei glitch del sistema che dovrebbero indicarci che ciò che percepiamo è solo una simulazione della realtà.
I combattimenti al cinema non sarebbero più stati gli stessi
Chad Stahelski è oggi uno dei più noti coreografi di combattimenti che lavori a Hollywood. Deve la sua fortuna al suo lavoro come stunt di Keanu Reeves in The Matrix e ha raccontato a Vulture come mai i combattimenti immaginati dai fratelli Wachowski siano stati così importanti per il cinema che è venuto dopo. Se fino al 1999 Hollywood doveva immaginare un combattimento, il modello era quello di Stallone e Schwarzenegger, in cui un bel singolo pugno ben assestato sarebbe stato sufficiente per risolvere la contesa.
Non c’era interesse, da parte del cinema occidentale, di immaginare coreografie prolungate, vere e proprie scene di performance tra danza e arti marziali, in cui il combattimento tra esseri umani si protraesse più delle ben più importanti scene di inseguimento in auto o dei grandi effetti visivi d’impatto. The Matrix ha cambiato tutto questo, dandoci non solo gli emuli, ma anche – sostiene Stahelski – aprendo le porte ai combattimenti dei film di supereroi che abbiamo visto negli ultimi anni.
L’altro aspetto, più generale e meno tecnico, è che visto il successo di un film come The Matrix, costato allora la ragguardevole cifra di 60 milioni di dollari, ma che ne ha incassati oltre 400, ha aperto spazi di mercato a film di arti marziali che – forse – altrimenti avrebbero faticato ad arrivare in Europa e America. Basta pensare al colossal La tigre e il dragone che nel 2001 arriva addirittura a prendersi l’Oscar e contribuendo a far circolare anche da noi il genere wuxia e il nome del regista, Ang Lee (che guarda caso farà anche un Hulk nel 2003).
Il mito della caverna e la paura della Superintelligenza
L’idea che la realtà che esperiamo con i nostri sensi sia falsa, ingannevole e solamente una pallida rappresentazione della vera realtà affonda le radici nella filosofia di Platone e nel suo mito della caverna. Quello che noi percepiamo non sono altro che ombre sulla parete della caverna mentre siamo incatenati, proprio come gli esseri umani in The Matrix, costretti a funzionare come fonte energetica per le macchine e destinati a una vita di inganni. Da questo punto di vista, The Matrix fa suo un grumo di stereotipi narrativi che si diramano da Platone allo gnosticismo (per esempio in Valeriano), dal Pedro Calderón della Barca di La vida es sueño (1635), alle Presenze invisibili di Philip K. Dick (1953), a Simulacron 3 di Daniel Galouye (1964, alla base del Tredicesimo piano, film anch’esso del 1999) e a molta altra fantascienza.
Sul fronte teorico i testi che hanno influenzato i fratelli Wachowski e il loro film sono molti, ma vale la pena ricordarne qualcuno. A cominciare da Out of control. La nuova biologia delle macchine, dei sistemi sociali e del mondo dell’economia, un libro seminale scritto da Kevin Kelly, il fondatore di Wired, nel 1995 e definito da Bruce Sterling una “autentica capsula di Petri di romanzi di fantascienza mai scritti”. I fratelli Wachowski, con The Matrix, ne hanno scritto almeno uno, muovendo dalla fascinazione – non del tutto originale, basti pensare all’HAL 9000 di Odissea nello Spazio – di un’intelligenza artificiale che si rivolta contro l’uomo che l’ha creata.
Sul piano filosofico, il pilastro su cui si appoggiano è Jean Baudrillard, dichiarandolo fin dall’apertura del film, come racconta il magazine finzioni. Baudrillard, scomparso nel 2007, ha gettato le basi di molta riflessioni attuali sulle relazioni con gli oggetti e, soprattutto, sul virtuale. La serie di domande che Morpheus fa a Neo la prima volta che si incontrano sono grossomodo le stesse che nel 2003 il filosofo Nick Bostrom raccoglie in un saggio diventato culto a propria volta: Are You Living In A Computer Simulation? (“Questo paper sostiene che almeno una delle seguenti proposizioni è vera: (1) è molto probabile che la specie umana si estingua prima di raggiungere lo stadio post-umano; (2) è estremamente improbabile che qualsiasi civiltà post-umana faccia funzionare un numero significativo di simulazioni della sua storia evolutiva (o sue variazioni); (3) quasi certamente viviamo in una simulazione informatica”).
E si tratta, con ogni probabilità, solo della punta dell’iceberg della bibliografia che potremmo mettere assieme attorno a The Matrix, dando un’idea del perché le domande, quella sera di maggio, di fronte al cinema Odeon, continuassero a moltiplicarsi. Il film dei Wachowski, per certi versi, ha funzionato per molti come una sorta di dispositivo di ricerca e conoscenza, al di fuori della narrativa rassicurante di Hollywood, riuscendo a mantenere un’equa distanza da tutti gli elementi che lo hanno formato (religione, filosofia, paranoia, estetica cyberpunk, fantascienza spara-spara, action-movies, viaggi dell’eroe raccontati da John Campbell e molto altro) perché non diventasse mai ridicolo. Al contrario mantenesse per tutti i suoi 136 intenti minuti una sua credibilità, che è poi la base di ogni buona storia. E The Matrix è una buonissima storia, anche riprendendo oggi la pillola rossa, quella che per la prima volta vent’anni fa ci ha fatto vedere la realtà.
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