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L’Unione Sovietica e la Luna

L'Unione Sovietica sembrava destinata a portare un essere umano sulla Luna prima degli Stati Uniti. Perché non ci è riuscita?

Nei primi anni Sessanta del secolo scorso la guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica si gioca anche, forse soprattutto, nello spazio. All’inizio sembra non esserci partita, la supremazia sovietica è schiacciante. Tra il 1961 e il 1965 i russi inanellano un successo dietro l’altro: il primo uomo e la prima donna in orbita (Jurij Gagarin e Valentina Tereškova, rispettivamente nell’aprile del 1961 e nel giugno del 1963), il primo volo contemporaneo di due navicelle con equipaggio (Vostok 3 e Vostok 4, nell’agosto del 1962), la prima attività extraveicolare nello spazio, ben dodici minuti trascorsi dal cosmonauta Aleksej Leonov all’esterno della navicella Voschod 2, nel marzo del 1965.

Eppure, incredibilmente, l’Unione Sovietica non riuscirà a vincere la gara più importante: far sbarcare un essere umano sulla Luna prima degli Stati Uniti. Com’è possibile?

Nessun programma a lungo termine

Il 13 settembre 1959 la sonda Luna 2 precipita come stabilito sul suolo lunare. Si tratta del primo oggetto costruito da un essere umano a toccare un altro corpo celeste. Poche settimane dopo Luna 3 fotografa per la prima volta il lato oscuro del nostro satellite. Sono due grandi successi, ma a partire da quale momento la corsa sovietica alla Luna subisce un’importante battuta d’arresto. Nessuna delle sonde lanciate tra il 1961 e il 1965 riesce a raggiungere gli obiettivi prefissati. Nel 1964, quando gli USA ottengono il loro primo risultato importante sulla Luna con Ranger 7, i sovietici arrancano. La verità è che il programma lunare russo nasconde una fragilità di fondo, dovuta sia a mancanze strutturali che a errori strategici.

Gli Stati Uniti sanno sin dall’inizio che le missioni con equipaggio destinate a raggiungere la Luna saranno quelle del programma Apollo e investono le loro risorse in modo preciso e mirato sul razzo vettore Saturn V. Tutto è sotto il controllo della NASA, dal 1961 al 1968 sotto la guida di una sola persona: James E. Webb. I sovietici, al contrario, non possono contare su un programma a lungo termine, ma devono sottostare ai cosiddetti piani quinquennali stabiliti dal partito. Si decide di dar vita a gruppi di lavoro distinti, impegnati nella realizzazione di diversi tipi di razzi vettori.

Errori strategici e rivalità personali: i fallimenti di N1 e Proton

Il gruppo OKB-1, guidato da Sergej Korolëv – il carismatico progettista capo delle più importanti missioni spaziali sovietiche – è impegnato nella realizzazione del razzo vettore N1. Progettato inizialmente a scopi militari, dal 1960 sarà sviluppato con l’obiettivo specifico di lanciare una capsula con a bordo due o tre cosmonauti. A causa della mancanza di fondi, lo sviluppo vero e proprio inizierà solo nel 1965, quasi quattro anni dopo quello di Saturn V. Saranno effettuati quattro tentativi di lancio, tutti e quattro destinati al fallimento; durante il secondo tentativo, nel luglio del 1969, N1 precipiterà poco dopo il decollo dalla piattaforma di lancio di Bajkonur, nell’attuale Kazakistan, provocando una delle più grandi esplosioni non nucleari nella storia dell’umanità. Il programma N1 sarà cancellato definitivamente nel 1974.

Nel frattempo Valentin Gluško, alla guida del gruppo denominato OKB-456, che in un primo momento aveva collaborato con Korolëv, decide di unirsi al team OKB-52, capitanato da Vladimir Čelomej. Dietro questa scelta ci sono perlopiù rivalità personali e motivazioni politiche. Gluško considera da sempre Korolëv un suo rivale, tanto da averlo accusato, quando al potere c’era Stalin, di essere un nemico del popolo, facendolo condannare a dieci anni di prigionia. Sperando di poter ottenere un trattamento di favore, il gruppo di lavoro di Čelomej e Gluško assume il figlio di Chruščëv, ma i risultati non sono quelli sperati. La guerra tra i due gruppi rallenta notevolmente la corsa spaziale sovietica.

Čelomej e Gluško portano avanti un progetto particolarmente ambizioso, denominato Proton. Immaginato inizialmente come missile balistico intercontinentale per il trasporto di testate nucleari, viene ridisegnato come vettore spaziale per l’invio di una navicella attorno alla Luna con due uomini a bordo, rielaborando in parte quanto già sviluppato per N1. Dopo il collaudo, però, anche Proton si rivela inaffidabile e causa il fallimento di numerose missioni. Negli anni Settanta si rivede l’intero progetto e nel 1977 i problemi di Proton vengono definitivamente risolti. Il vettore, utilizzato ancora oggi per le missioni spaziali russe, è una delle opere umane più longeve della storia dell’astronautica.

Una nuova speranza

Quando Chruščëv è costretto a ritirarsi, nell’ottobre del 1964, il gruppo di Čelomej e Gluško viene sciolto e Korolëv, avendo di nuovo mano libera, decide di utilizzare Proton e una nuova generazione di navicelle – denominate Sojuz – per portare due cosmonauti sulla Luna. Pochi mesi dopo i sovietici ottengono i primi veri successi lunari grazie a due missioni prive di equipaggio. Nel luglio del 1965 la sonda Zond 3 raggiunge l’orbita del nostro satellite, mentre nel febbraio del 1966 Luna 9 realizza il primo allunaggio “morbido” della storia, precedendo di pochi mesi la sonda americana Surveyor 1. Tra il marzo e il dicembre del 1966 vengono lanciate anche altre quattro sonde del programma Luna; tre di queste portano a compimento la loro missione e trasmettono immagini e dati significativi.

Questi successi riaccendono le speranze: forse è ancora possibile condurre due cosmonauti sulla Luna prima dei concorrenti americani. La verità, però, è ben diversa. I programmi Gemini e Apollo sono strutturati molto meglio rispetto a Sojuz e lo stesso allunaggio di Luna 9, pur essendo un successo, arriva dopo svariati fallimenti e un enorme spreco di risorse. A rendere ancora più problematica la situazione è la morte prematura di Korolëv, avvenuta il 14 gennaio del 1966, poche settimane prima dello sbarco di Luna 9. A sostituirlo è il suo braccio destro, Vasilij Mišin. Pur essendo esperto quasi quanto il suo predecessore, Mišin inanellerà una serie di errori – in parte dovuti alle pressioni dei vertici politici, ansiosi di battere sul tempo gli americani – a causa dei quali la possibilità di far giungere una missione con equipaggio sulla Luna naufragherà definitivamente.

La fine del sogno

Il punto di non ritorno viene raggiunto nel 1967, annus horribilis sia per gli Stati Uniti che per l’Unione Sovietica. Il 27 gennaio i tre membri dell’equipaggio dell’Apollo 1 muoiono in un terribile incidente. Tre mesi dopo, il 24 aprile 1967, il cosmonauta Vladimir Komarov perde la vita durante l’atterraggio di emergenza della navicella Sojuz 1. Le indagini compiute nei mesi successivi faranno emergere numerosi errori sia in fase di progettazione che di sviluppo della capsula. Il programma Apollo riparte nel novembre del 1967, mentre Sojuz 4 e Sojuz 5, le prime capsule sovietiche con equipaggio umano dopo Sojuz 1, saranno lanciate solo nel gennaio del 1969. Le due navicelle si agganciano in orbita e viene effettuato il trasbordo dell’equipaggio; è un successo, ma gli Stati Uniti sono già pronti a portare sulla Luna gli astronauti dell’Apollo 11. È troppo tardi. I sovietici, dati per favoriti all’inizio della corsa, sono stati sconfitti. Dal 20 luglio 1969 sulla Luna campeggia la bandiera a stelle e strisce.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.    Fotografia: NASA

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Simone Petralia
Giornalista freelance. Amo attraversare generi, discipline e ambiti del pensiero – dalla scienza alla fantascienza, dalla paleontologia ai gender studies, dalla cartografia all’ermeneutica – alla ricerca di punti di contatto e contaminazioni. Ho scritto e scrivo per Vice Italia, Scienza in Rete, Micron e altre testate. Per OggiScienza curo Ipazia, rubrica in cui affronto il tema dell'uguaglianza di genere in ambito scientifico attraverso le storie di scienziate del passato e del presente.