Quando il cane diventa anziano
Il tempo passa per tutti, anche per i nostri cani: alcuni effetti sono evidenti, come il pelo bianco, ma cambiano anche le abilità cognitive.
Gli anni passano inesorabili per tutti, anche per i nostri cani. I dati sulla loro longevità sono soggetti ad alcuni bias di campionamento, perché provengono dai kennel club o dalle cliniche veterinarie. Tuttavia, le informazioni disponibili suggeriscono che il generale progresso della medicina veterinaria, le migliori condizioni igienico-sanitarie e un’alimentazione più attenta abbiano determinato un maggiore invecchiamento della popolazione. Ma cosa succede al cane anziano, man mano che invecchia?
Sono molti i cambiamenti fisiologici noti nel cane anziano; alcuni, come l’imbiancamento del pelo, li possiamo vedere chiaramente. La senescenza ha vari effetti sulla salute dei nostri compagni canini, tra cui lo sviluppo di alcune malattie legate all’età (problemi articolari, cataratta, malattie cardiache e renali…). Gli effetti dell’invecchiamento coinvolgono anche il sistema nervoso e le abilità cognitive: diversi studi hanno provato a indagarli, e in alcuni casi offrono informazioni importanti anche per la ricerca biomedica nella nostra specie.
Caratterizzare il fenomeno
«Gli effetti dell’invecchiamento prettamente legati al sistema nervoso del cane sono simili a quelli osservati nell’essere umano, con diverse aree del cervello suscettibili di degenerazione (morte o alterata funzione dei neuroni), la cui intensità può arrivare a compromettere alcune funzioni», spiega a OggiScienza Paolo Mongillo, professore associato all’Università di Padova e neuroetologo del cane. «Ma la prima difficoltà nel caratterizzare questi fenomeni è proprio capire quale sia la soglia oltre la quale si può stabilire che la funzione è patologicamente compromessa, oppure se un certo grado di declino è compatibile con un invecchiamento fisiologico».
Inoltre, è necessario stabilire come valutare la compromissione della funzione. Diversamente da quanto avviene nell’essere umano, infatti, al cane non possono essere rivolte domande dirette che permettano di testare la memoria. I ricercatori hanno sviluppato test neuropsicologici ad hoc per i cani, in grado di evidenziare gli effetti dell’invecchiamento su alcune funzioni neurologiche. «Ma si tratta di studi che di solito richiedono esperimenti molto lunghi e che dunque sono difficili da condurre sui cani di proprietà, perché sarebbe richiesto al proprietario di recarsi in laboratorio per tutta la durata dell’esperimento. Ciò fa sì che non sia noto quanto questi aspetti, molto indagati nei cani da ricerca (essenzialmente i beagle), siano applicabili alla popolazione generale», spiega il professore.
«In generale, poi, bisogna ricordare che non esiste, o non si conosce, un’età oltre la quale un cane può essere definito “anziano”: come per l’essere umano, infatti, i limiti d’anzianità che possiamo stabilire sono molto arbitrari», continua Mongillo. «L’insieme delle informazioni che si ha, a oggi suggerisce che in qualche modo le funzioni cognitive del cane inizino a declinare dopo il settimo anno d’età, ma questa considerazione non può essere considerata valida per la popolazione generale».
Le funzioni cognitive del cane
Tra i domini cognitivi del cane, i più indagati sono l’attenzione sociale, apprendimento, memoria e addestrabilità, le abilità fisiche e sociali e le funzioni esecutive (ossia un insieme di funzioni mentali che comprendono tutto ciò che riguarda il decision making, come comprendere concetti astratti o regole e prendere decisioni complesse). Alcuni, come la memoria, subiscono gli effetti della senescenza anche nella nostra specie, per cui sono di particolare interesse anche per la medicina umana.
Uno studio, condotto dai ricercatori del Clever Dog Lab di Vienna e pubblicato nel 2016 sulla rivista Age, ha indagato gli effetti dell’invecchiamento sulle capacità di apprendimento in 95 border collie di proprietà, di età compresa fra i cinque mesi e i 13 anni. Il test impiegato era basato su un compito di discriminazione, nel quale ai cani sono presentati più stimoli contemporaneamente – diverse figure geometriche, o fotografie e disegni – tra i quali è loro richiesto di selezionarne uno, che porterà alla ricompensa. In questo modo è stato possibile osservare che ai cani più giovani era sufficiente un numero minore di sessioni per imparare il criterio di selezione; con l’avanzare dell’età, l’apprendimento rallenta, e al cane serviranno molte più prove per capire ciò che gli è richiesto.
I ricercatori hanno anche studiato la capacità di fare inferenze per esclusione, sostituendo gli stimoli che nei primi test erano associati alla ricompensa (positivi) con altri e presentandoli in coppia a stimoli che i cani conoscevano come negativi. In questo modo, è possibile capire se il cane esegue una forma di ragionamento deduttivo: se assume che nella coppia d’immagini che gli sono presentate vi sia sempre uno stimolo positivo, sceglierà la nuova immagine e non quella che già conosce come “non portatrice di ricompensa”. Questa particolare abilità cognitiva sembra aumentare con l’età: sebbene solo il 10 per cento dei cani testati fosse in grado di fare un’inferenza sulle immagini che gli venivano sottoposte, erano soprattutto gli anziani a indicare il nuovo stimolo positivo.
Anche Mongillo e i suoi colleghi del laboratorio Dog UP di Padova hanno condotto alcuni esperimenti per valutare gli effetti dell’invecchiamento sulle abilità cognitive del cane. Più precisamente, si sono concentrati sulla cognizione spaziale e sul reversal learning, ossia l’abilità di invertire un apprendimento avvenuto in precedenza. «Il nostro lavoro si è basato sull’utilizzo di un labirinto a T: il cane è fatto entrare nel braccio lungo del labirinto e impara che solo una delle direzioni, destra o sinistra, gli consente di uscire», spiega il professore. «Dopo un paio di settimane da questa fase di apprendimento spaziale, il cane torna in laboratorio e sottoposto di nuovo al test, così da avere indicazioni sulle sue capacità mnemoniche nel medio termine. A questo punto, il test è riproposto, ma la direzione che gli consente d’uscire è invertita: ciò ci consente di valutare il reversal learning».
I ricercatori di Padova hanno così osservato che nei cani adulti e negli anziani (oltre gli otto anni d’età), la capacità di apprendimento spaziale nella prima fase del test è equivalente. A variare con l’età sono invece la memoria e le capacità di reversal learning: dopo due settimane, i cani più anziani ricordavano meno il percorso e, soprattutto, mostravano una significativa riduzione nella capacità di invertire l’informazione appresa.
Il cane come modello di studio per l’Alzheimer
La malattia di Alzheimer rappresenta la più comune forma di demenza senile, caratterizzata dalla comparsa di placche di beta-amiloide e di ammassi neurofibrillari di proteina tau nel cervello dei pazienti affetti. Nel regno animale, sono pochissime le specie che sviluppano in modo spontaneo patologie neurodegenerative con caratteristiche simili a quelle dell’Alzheimer. La sindrome da disfunzione cognitiva, che secondo un articolo pubblicato a maggio può colpire dal 14 al 35% dei cani domestici, ha forti somiglianze con la patologia umana e rende il cane uno dei migliori modelli di studio per l’Alzheimer.
Nel cane i sintomi sono evidenti soprattutto come disorientamento, alterazione nelle interazioni sociali e la motivazioni a compierle, alterazioni nel ritmo circadiano e nella quantità e qualità del sonno; come racconta il veterinario Lee Harris in un articolo del Washington Post, anche se magari non dimentica le chiavi della macchina, può non ricordare quale sia l’uscita che porta al giardino.
«Oltre determinare l’insorgenza di sintomi simili, con il declino delle funzioni esecutive e della memoria, la sindrome da disfunzione cognitiva del cane sembra avere in comune con le demenze della nostra specie alcuni aspetti patogenetici, ossia i meccanismi che portano all’insorgenza dei sintomi», spiega Mongillo. Sebbene nel cane affetto non si osservi la deposizione degli ammassi neurofibrillari di proteina tau, infatti, sono presenti le placche di beta-amiloide; si riscontrano inoltre danni cerebrali di natura ossidativa, correlati alla disfunzione dei mitocondri neuronali, e lo stato d’infiammazione tipici dell’Alzheimer umano. Inoltre, una review del 2013 evidenzia anche come la farmacocinetica di assorbimento dei farmaci sia molto simile tra cane ed essere umano; questa caratteristica ha fatto sì che molti dei farmaci siano stati testati in entrambe le specie.
«Purtroppo, spesso la demenza nel cane viene diagnosticata già in fase avanzata, per cui è difficile intervenire», spiega il professore. Nel cane come nell’essere umano, i trattamenti sono infatti più efficaci se eseguiti prima del comparire dei sintomi. Una dieta arricchita di alcuni supplementi nutrizionali, tra cui determinati anti-ossidanti, ad esempio, si è dimostrata d’aiuto per rallentare la formazione delle placche di beta-amiloide, ed effetti positivi sono associati anche all’arricchimento comportamentale, inteso come un insieme arricchimento sociale e ambientale, esercizio fisico e cognitivo.
L’invecchiamento influenza l’attaccamento al proprietario?
Non tutti gli effetti dell’invecchiamento sono legati al declino delle abilità cognitive o all’insorgenza di patologie neurodegenerative. Un aspetto molto peculiare indagato dai ricercatori di Dog UP, ad esempio, riguarda la sfera affettiva: in uno studio del 2013, gli etologi hanno studiato infatti se e come cambia, con il progredire dell’età, l’attaccamento del cane nei confronti del proprietario.
Per farlo, si sono basati sullo strange situation test, originariamente sviluppato mettere in luce alcune caratteristiche comportamentali tipiche del rapporto tra un infante e una figura d’attaccamento come quella materna. «Fondamentalmente, il test originale prevede che il bambino manifesti una serie di comportamenti legati alla presenza o assenza della figura di attaccamento: se questa è presente, ad esempio, il bambino dovrebbe avere sufficiente sicurezza da esplorare l’ambiente circostante. Il test si svolge quindi attraverso una serie di fasi che permettano di esaminare il comportamento in assenza della figura d’attaccamento, in sua assenza, in presenza di un estraneo», spiega Mongillo.
Nel 1998, un gruppo di etologi ungheresi ha adattato il test ai cani, riscontrando che la relazione con la figura d’attaccamento (nel loro caso, il proprietario) è analoga a quella osservata negli umani per cui, ad esempio, il cane manifesta stress e cerca il padrone se questi è assente, mentre se è presente si dedica ad attività come il gioco o l’esplorazione dell’ambiente.
«Noi abbiamo sottoposto al test 50 cani, metà dei quali sopra i sette anni d’età. I partecipanti erano quindi coinvolti in diverse situazioni: il proprietario stimola il gioco, entra un estraneo che parla con il proprietario, poi quest’ultimo esce e così via», racconta Mongillo. «Ciò che abbiamo osservato è che i cani anziani cercano il contatto con il proprietario più di quanto facciano i giovani, ma mostrano anche una maggior passività: restano seduti o distesi, senza mostrare particolare interesse per l’ambiente, soprattutto quando il proprietario è assente».
Inoltre, all’inizio e alla fine del test, i ricercatori hanno raccolto campioni di sangue e saliva dei cani per analizzarne il livello di cortisolo, un ormone correlato allo stress. «Gli aspetti psicologici legati all’invecchiamento sono stati ampiamente indagati negli esseri umani: diversi studi hanno evidenziato, ad esempio, che la qualità dei legami sociali è associata a un maggior benessere e a minori livelli di depressione negli anziani. Nel cane, i cambiamenti psicologici legati all’età potrebbero essere correlati a una maggior fragilità, che può portarlo a maggiori difficoltà nell’affrontare lo stress, come quello causato dal test. E in effetti, i campioni raccolti durante l’esperimento hanno mostrato un innalzamento del livello di cortisolo nel gruppo dei cani anziani», spiega il professore.
In sostanza, quindi, l’invecchiamento non sembra influenzare l’attaccamento nei nostri confronti: giovane o vecchio che sia, per il nostro cane restiamo importanti figure di riferimento. A cambiare è piuttosto la reazione allo stress, causato in questo caso da una blanda difficoltà sociale, che può contribuire alla maggior prevalenza di problemi come l’ansia da separazione riportata nei cani anziani.
«Non ci è chiara la relazione causale tra le osservazioni sul comportamento durante il test e i cambiamenti nei livelli cortisolo», spiega Mongillo. «La passività mostrata dai cani anziani li rende meno abili a cercare soluzioni comportamentali in assenza del proprietario? Per capirlo saranno necessari ulteriori studi, ma da quanto osservato finora, possiamo almeno dire che il tempo non intacca l’attaccamento che il cane prova nei nostri confronti».
Non ci resta che ricambiarlo.
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