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Black Mirror 5: addio inquietudine, benvenuta nostalgia

Dopo un inizio paranoico nei confronti della tecnologia, il "nuovo" Black Mirror parla di presente e a volte di passato, diventando a tratti quasi ottimista.

Dopo l’esperimento interattivo di Bandersnatch, la creatura distopica di Charlie Brooker (qui e qui le puntate precedenti) è tornata con tre episodi. Un numero non casuale, che riporta la serie alle origini, prima cioè che passasse sotto la gestione di Netflix. Probabilmente questa è l’unica vera concessione alle origini della serie: il nuovo Black Mirror è uno schermo nero quasi depotenziato, fortemente alleggerito di inquietudine e di vere paranoie sulla tecnologia, a tratti insolitamente ottimista. La sensazione è che la serie, da Bandersnatch in poi, abbia pigiato forte sull’acceleratore sulla nostalgia.

Se prima ci immaginavamo e fantasticavamo su futuri, prossimi o remoti, la nuova Black Mirror parla direttamente al presente o addirittura al passato, sia in termini di trame sia in termini di immaginari di riferimento. Facendo questo prova a rinnovarsi, cercando di mettere in primo piano l’essere umano e le sue scelte (rafforzando il filone inaugurato da Bandersnatch, dove le scelte le facevamo anche noi che guardavamo) e non la tecnologia, ormai solo un pretesto sempre meno curato e mero ingranaggio per parlare delle persone. Il problema è che, date le premesse, la nuova stagione mostra delle storie non abbastanza forti per dare concretezza al cambio di ritmo.

Striking Vipers

La serie numero 5 si apre con un episodio che ammicca fortemente alla nostalgia anni ‘80-’90 così di moda oggi. L’episodio è l’ennesimo ambientato in ambito videoludico ed è l’ennesimo nel quale la personalità di un personaggio viene trasferita in un alter ego digitale tramite un dispositivo da applicare alla tempia (“non importa se quella destra o sinistra” dice uno dei protagonisti, in una sorta di auto presa in giro da parte di Brooker). Lo sforzo di immaginazione sulla tecnologia in questo episodio è minimo, anzi, di fatto è inesistente. La puntata ha l’obiettivo di far riflettere su quanto possa essere labile l’identità di una persona, dai propri valori di riferimento all’orientamento sessuale, un’identità spesso imprigionata in una serie di vincoli e preconcetti dettati dalla società.

In “Striking Vipers” esso è invece liberato da un videogioco di combattimento che ricalca fortemente l’estetica di Street Fighter e Tekken, dove i personaggi non erano solo picchiatori professionisti, ma anche figure fortemente sessualizzate, soprattutto i personaggi femminili. Paradossalmente, la tecnologia che tanto ha fatto male negli episodi precedenti qui è fonte di libertà: il gioco è un luogo dove amare totalmente ed essere pienamente sé stessi, mentre la realtà – quella al di fuori del gioco Striking Vipers – è un carcere reso tale dai luoghi comuni e dai ruoli prestabiliti che la società si aspetta da ognuno di noi. Padre, moglie, marito, madre, incallito playboy, non importa: una volta che scegliamo un ruolo dobbiamo portarlo a termine a qualsiasi costo, sembra accusare Brooker.

Invece basta una distrazione adolescenziale per farci essere chi siamo veramente: nel gioco (che è un gioco di lotta, un classico picchiaduro) si ama col corpo e col cuore, mentre è nella realtà che i personaggi finiscono per darsele di santa ragione in uno squallido parcheggio in piena notte. Siamo agli antipodi dell’episodio USS Callister (primo della quarta stagione), dove era il gioco a essere una vera e propria prigione.    

Smithereens

Il secondo episodio è quello più vicino al Black Mirror pessimista riguardo la tecnologia, se non fosse che quella al centro dell’episodio non è avveniristica o iperbolica. L’episodio parla dell’uso eccessivo dei social network e del nostro essere spesso imbambolati davanti a uno schermo. Sulla carta, l’essenza di Black Mirror. Non c’è bisogno che venga inventato chissà quale dispositivo per vivere chissà quale alienazione. Siamo già alienati, spiega Brooker, facendo pronunciare un’invettiva anti-smartphone al protagonista dell’episodio.

“Smithereens” passa in rassegna tutti i tasti dolenti legati agli smartphone: privacy, contatti eredi, la “modalità-Dio” dei grandi colossi informatici che sanno tutto di noi, l’essere asociali, taciturni e assenti perché “da quando sei salito non hai mai tolto gli occhi di dosso da quello schermo!”. Il punto è che l’episodio – che si regge su una grande prova attoriale di Andrew Scott, il Moriarty di Sherlock della BBC – è costruito su una trama essenziale come Bandersnatch, con personaggi dai ruoli estremamente semplificati e dalle personalità davvero stilizzate. “Smithereens” finisce per essere un’ora abbondante di moralizzazione sull’uso eccessivo dei social e dello smartphone, più consono a una pubblicità progresso che a una serie con grandi capacità metaforiche e narrative come Black Mirror, dalla quale è lecito aspettarsi molto di più. 

Rachel, Jack e Ashley Too

L’episodio che chiude la serie vede protagonista Miley Cyrus, attorno alla quale la puntata è come cucita addosso. La cantante interpreta Ashley-O e dà la voce al suo alter-ego: Ashley Too. Nell’episodio Ashley è una popstar di fama mondiale al culmine della carriera che, attraverso sistemi di intelligenza artificiale, viene “replicata” e commercializzata in un giocattolo-bambola chiamato Ashley Too. L’idea è quella di regalare ai fan della cantante un feticcio con cui poter parlare simulando un dialogo con la vera Ashley. La duplicazione tramite IA non è certo una novità in Black Mirror.

Sul piano narrativo, la storia viaggia su due binari paralleli: quello della situazione familiare dalla grande fan di Ashley, Rachel, adolescente in conflitto con la sorella rockettara Jack, e quello della cantante, sfruttata e plagiata dalla zia anche grazie a sofisticati sistemi informatici e neurologici. Ancora una volta Black Mirror imposta una storia che parte dal rapporto tra l’essere umano e la macchina, ma come accaduto in “Striking Vipers” anche questa terza puntata finisce per offrire il meglio di sé altrove, cioè nel rapporto tra le persone, in particolare tra le due sorelle e la famosa regina del palcoscenico. L’episodio, seppur a tratti divertente, non riesce a essere incisivo, né inquieta come altri episodi conclusivi come il terrificante “Black Museum”.

La morale finale sul cinismo dell’industria discografica non è in grado di innescare quel senso di disturbo proprio dell’identità della serie. A livello di schermo nero, cioè di risvolti inquietanti del progresso, la puntata si concentra su dispositivi di stampo informatico e neurologico capaci di indurre coma e di estrapolare informazioni, parole e suoni dal cervello, oltre che sulla già citata IA. I temi però, sono introdotti in un contesto narrativo dove questi poteri nefasti non fanno mai davvero paura. Rispetto a quanto visto in precedenza nella serie, fanno davvero il solletico


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.    Immagine: Netflix Black Mirror

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Enrico Bergianti
Giornalista pubblicista. Scrive di scienza, sport e serie televisive. Adora l'estate e la bicicletta.