Lontani dagli umani: gli ultimi rifugi dei grandi predatori marini
La presenza dei mercati umani influenza la dimensione del corpo degli squali e il numero di animali presenti in un'area. Per trovare zone meno turbate dal nostro impatto, bisogna allontanarsi di oltre mille chilometri.
Le attività di pesca sono andate aumentando in modo significativo già dagli anni Cinquanta, facendo sì che la fauna marina si sia ridotta in diverse aree, soprattutto costiere. Per proteggere le specie marine e per raggiungere una certa sostenibilità nello sfruttamento delle risorse marine è necessario capire quali siano gli habitat migliori per le specie da tutelare, nei quali stabilire o migliorare le aree protette dal divieto di pesca.
Uno studio recentemente pubblicato su PLOS Biology ha indagato le preferenze di habitat dei grandi predatori, e soprattutto degli squali, nella regione dell’Indo-Pacifico, tra le zone subtropicali e tropicali dell’oceano Indiano e nella parte occidentale del Pacifico. Lo studio, guidato dalla Zoological Society of London, un’organizzazione no-profit per la tutela degli animali e dei loro habitat, ha rivelato che la presenza dei mercati umani influenza profondamente la dimensione corporea e l’abbondanza degli squali. È necessario allontanarsi di almeno 1.250 chilometri dalle aree più interessate dall’attività antropica per trovare dei rifugi nei quali la pressione umana non si rifletta sulla popolazione degli squali.
Tutelare il ruolo chiave dei grandi predatori
I grandi predatori, sia marini che terrestri, hanno un ruolo fondamentale per gli ecosistemi: controllano la catena trofica, agiscono rimuovendo in modo selettivo gli individui più deboli o malati, che sono predati con maggior facilità, e sono in grado di traslocare i nutrienti tra diversi habitat. La loro riduzione o scomparsa avrebbe quindi gravi conseguenze per gli ecosistemi. Per quanto riguarda gli squali, ad esempio, il report rilasciato nel 2008 dall’organizzazione internazionale Oceana riporta diversi esempi di come la presenza di questi animali permetta di mantenere l’equilibrio in diversi ecosistemi, dalla barriera corallina dei Caraibi alle acque del Nord Atlantico. I ricercatori della ZSL hanno valutato la ricchezza delle specie, dimensione corporea media e l’abbondanza di squali in funzione della geomorfologia del territorio, delle condizioni ambientali e della pressione antropica nell’area Indo-Pacifica, per capire come ciascuno di questi elementi influenzi i primi.
I dati sono stati raccolti analizzando le riprese video ottenute in oltre mille siti tra l’oceano Pacifico e l’Indiano, selezionati per poter tenere in considerazione la più ampia gamma possibile di condizioni e di habitat. Alcuni siti di monitoraggio si trovavano in prossimità di aree con un’alta presenza umana e in cui si attua la pesca; altri rimanevano molto più isolati.
In totale, i ricercatori sono riusciti a raccogliere i dati su 23.200 individui, rappresentanti di oltre 100 specie: in particolare, oltre ai dati sugli squali, sono stati raccolti dati su altri grandi predatori quali il carango arcobaleno (Elegatis bipunnulata), la lampuga (Corifena cavallina) e il marlon indopacifico (Istiompax indica). Degli 841 squali studiati, appartenenti a 19 specie diverse, è stato osservato che una maggior vicinanza a zone di commercio di pesce e grandi centri abitati dagli esseri umani determinano una presenza molto più scarsa e d’individui più piccoli.
Migliorare le aree marine protette
«L’attività umana è ciò che maggiormente influenza la distribuzione degli squali, più di altri fattori ecologici», spiega in un comunicato Tom Letessier, ricercatore dell’Istituto di Zoologia della ZSL e uno degli autori dello studio. «Gli squali e gli altri predatori osservati sono molto più abbondanti e di dimensioni significativamente maggiori nelle aree distanti almeno 1.250 chilometri dalla presenza umana. Questo dato suggerisce che i predatori marini siano generalmente incapaci di prosperare nelle vicinanze della nostra specie; è inoltre un altro esempio dell’impatto dello sovrasfruttamento umano dell’ambiente marino».
Inoltre, gli hotspot d’individui grandi e popolazioni abbondanti sono scarsi nelle aree marine protette e con di pesca, come quella del Territorio britannico dell’oceano Indiano, per le quali saranno dunque necessari miglioramenti e ampliamenti per preservare in modo efficace le popolazioni di squali. Un altro dato emerso dallo studio è che gli squali sono più abbondanti nei fondali bassi. «Le acque a profondità minore di 500 metri sono vitali per la diversità dei predatori marini. Dobbiamo quindi identificare siti che siano contemporaneamente a fondale basso e in aree remote e renderli prioritari per la conservazione delle specie», spiega Letessier.
«Ci sono ancora numerosi hotspot di squali, caratterizzati da fondali bassi, in prossimità di aree di pesca, e questo deve cambiare. Le aree marine protette già esistenti devono essere rinforzate ed estese in modo che coprano gli ultimi rifugi, ossia le aree non toccate dall’impatto umano, che consentano a questi splendidi predatori di rimanere abbondanti».
Leggi anche: Attacchi di squali, l’allarmismo non serve
Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.