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Crescita fetale e peso alla nascita, le cose da sapere

Basso peso alla nascita, bambino piccolo per età gestazionale (sga) e restrizione di crescita fetale (iugr): cosa sono, cosa comportano, come si possono prevenire e come si può intervenire.

“È nato, è bellissimo e pesa…”. Quando tutto va bene, queste sono le prime parole che i neogenitori comunicano, spesso ancora dalla sala parto, a parenti e amici. Parole di gioia e sollievo, accompagnate dal primo dei tanti numeri che saranno associati al bambino nella sua vita: il peso alla nascita. Non è un dettaglio buono solo per far felici i nonni, ma un indicatore davvero importante dello stato di salute del bambino e di eventuali rischi che potrà correre a breve o a lungo termine se per esempio quel numero è troppo piccolo e in particolare sotto i 2500 grammi. I medici parlano allora di “basso peso alla nascita”, una condizione che in Italia riguarda ogni anno circa sette neonati su cento, secondo i dati di un’indagine globale pubblicata poche settimane fa sulla rivista Lancet.

Non sempre è il caso di allarmarsi: “A volte il neonato è piccolo per ragioni costituzionali, perché anche i suoi genitori sono minuti, e da genitori così, tendenzialmente, non ci si aspetta un colosso” spiega il neonatologo Stefano Nobile, del Policlinico universitario Gemelli di Roma. Precisando che in questi casi non ci si aspettano rischi particolari. “Altre volte, invece, il basso peso alla nascita può dipendere dalla prematurità, o dal fatto di avere subìto un rallentamento della crescita in utero: si parla in questo caso di restrizione della crescita fetale (oppure ritardo, ma questo termine oggi è sempre meno usato), in sigla iugr”.

Condizioni a rischio

Il problema è che in questi casi “non costituzionali” nascere piccoli può comportare una serie di rischi per la salute sia nell’immediato sia a lungo termine. “I bambini di basso peso possono soffrire di più durante il parto, e appena nati corrono maggior rischio di asfissia perinatale, ipotermia, ipoglicemia, disfunzioni cardiache, problemi di coagulazione e altro ancora” spiega Nobile. Nei centri nascita attrezzati in modo adeguato i neonatologi sono in grado di far fronte tempestivamente a queste condizioni – “per esempio, per evitare un’eccessiva dispersione di calore i neonati piccolini possono essere infilati subito in speciali sacchettini di polietilene e poi trasferiti nelle culle termiche” – ma nei casi più gravi possono esserci conseguenze permanenti. Che magari si aggiungono a quelle tipiche della prematurità, come retinopatia o enterocolite.

In più il basso peso alla nascita può avere ricadute anche a distanza, sulla salute futura dell’individuo. Il primo ad accorgersene, già più di vent’anni fa, fu l’epidemiologo inglese David Barker, osservando che, a parità di altre condizioni, chi nasce con un peso inferiore ai 2500 grammi ha qualche probabilità in più rispetto a chi nasce “normopeso” (tra 2,5 kg e 4 kg) di sviluppare da adulto diabete e malattie delle coronarie come l’infarto. “E oggi sappiamo che corre rischi maggiori anche di altre condizioni, dall’ipertensione alla sindrome metabolica, da disturbi endocrini come la menopausa precoce a disturbi comportamentali e neurologici come ansia, depressione e malattia di Parkinson, dall’osteoporosi ad alcune forme tumorali” spiega Nobile. Le cause? “In alcuni casi sono dovute ad alterazioni strutturali degli organi, in altre a fenomeni epigenetici, che portano ad alterazioni nei meccanismi di accensione e spegnimento dei geni”.

Anche in questo caso si può fare molto per ridurre rischi, soprattutto puntando sull’attenzione allo stile di vita fin dai primissimi giorni. Sbagliato, per esempio, ritenere che un bimbo nato piccolo debba recuperare il prima possibile, puntando a un ritmo di crescita superiore alla media. Megli invece puntare a una crescita più lenta e armonica, per non stravolgere il suo delicato equilibrio metabolico. “Inoltre con questi bambini bisogna stare particolarmente attenti a evitare l’obesità e abituarsi a tenere sotto controllo la pressione, anche quando sono ancora piccoli” raccomanda Nobile.

È ovvio però che sarebbe ancora meglio prevenire a monte le cause del basso peso alla nascita, ed è qui che le cose si complicano, perché in molti casi, per esempio per la restrizione di crescita intrauterina, la nostra capacità di intervento è ancora piuttosto limitata.

Iugr e sga: che cosa sono

“Per definizione, un feto con restrizione di crescita o iugr è un feto che non cresce quanto potrebbe, cioè che non riesce a raggiungere il suo potenziale genetico di accrescimento” afferma la professoressa Tamara Stampalija, responsabile della struttura di medicina fetale e diagnostica prenatale dell’IRCCS Burlo Garofolo di Trieste. Talvolta, l’espressione è anche usata come sinonimo di bambino piccolo per età gestazionale (in sigla sga), ma in realtà si tratta di due condizioni diverse. Il bambino sga, infatti, è un bambino che alla nascita presenta un peso inferiore al decimo percentile (o al terzo percentile, per qualcuno) rispetto a quello previsto per quell’epoca gestazionale da una curva di crescita standard presa come riferimento.

“Dunque – chiarisce la ginecologa – un bambino “sga” non dipende necessariamente da una restrizione di crescita, se per esempio il suo basso peso alla nascita è dovuto a ragioni costituzionali, e viceversa un bambino con restrizione di crescita non è necessariamente “sga”, se il rallentamento della crescita è iniziato verso la fine della gravidanza, quando ormai aveva raggiunto un certo peso”. Già: perché la restrizione della crescita può essere precoce, ma anche tardiva. Nel primo caso è più grave, può portare a complicazioni importanti a breve e a lungo termine (in alcuni casi a morte in utero), ma per fortuna è più rara e riguarda lo 0,4% circa delle gravidanze. “Lo iugr tardivo è invece più frequente (circa 5-6% delle gravidanze) e meno grave nelle sue manifestazioni, ma anche più difficile da diagnosticare”.

Perché il bimbo, a volte, non cresce

In alcuni casi la restrizione di crescita può rappresentare il sintomo di una sindrome fetale di origine genetica, come la sindrome di Down. In altri può essere la conseguenza di un’infezione materna che ha interferito con il funzionamento della placenta (l’organo che porta al feto i nutrienti e l’ossigeno di cui ha bisogno) o direttamente con lo sviluppo del feto. “Può succedere per esempio con la sifilide, con un effetto soprattutto sulla placenta, o con la rosolia, che è associata anche al rischio di varie anomalie congenite, alcune molto gravi” spiega Stampalija, precisando che anche altri agenti infettivi – come il citomegalovirus e il toxoplasma – possono comportare alterazioni della crescita fetale.

Altre volte all’origine della restrizione è invece presente un’importante malnutrizione materna o il fatto che la mamma soffra di malattie autoimmuni, pressione alta cronica, diabete, disturbi della coagulazione. O, ancora, che fumi o faccia abuso di alcol o droghe. Alcuni di questi fattori vanno ad influenzare il funzionamento placentare e d’altra parte la causa “placentare”, ossia un’insufficienza o malfunzionamento placentare, è la causa più frequante di restrizione di crescita. “Nella restrizione di crescita precoce quello che succede è che la placenta non si forma bene già nelle primissime settimane di gravidanza, mentre in quella tardiva può darsi che si sia formata bene ma che da un certo momento in poi non riesca più a soddisfare le richieste fetali, per un processo di “invecchiamento” o perché il sistema cardiovascolare materno non riesce più a soddisfare le richieste della placenta e del feto”. Una condizione, quest’ultima, che potrebbe avere a che fare con un’avanzata età materna, anche se non è ancora possibile affermarlo con certezza.

Come si fa la diagnosi

Se la restrizione di crescita è precoce è in genere durante un’ecografia di routine che si scopre che c’è qualcosa che non va: per esempio durante l’ecografia morfologica del secondo trimestre, oppure durante eventuali ecografie in più prescritte perché si sa già che c’è qualche fattore di rischio. “A meno che le dimensioni del feto non siano però estremamente piccole il semplice dato biometrico in genere non basta a diagnosticare un rallentamento della crescita: potrebbe sempre trattarsi di un feto che costituzionalmente cresce poco” afferma Stampalija. “Per capire meglio cosa sta succedendo occorre fare riferimento anche alla velocimetria doppler, un’indagine che si fa sempre con l’ecografo per valutare le caratteristiche della circolazione a livello placentare e fetale: così si vede se la placenta sta funzionando bene oppure no”.

Nel caso della restrizione tardiva le cose si complicano. “Fino a qualche anno fa era prevista un’ecografia di routine anche nel terzo trimestre, a 30 settimane, ma i nuovi Livelli essenziali di assistenza, emanati nel 2017, non la prevedono più (ma attenzione: non sono ancora stati recepiti ovunque per cui in alcune regioni può succedere che sia ancora offerta, NdR) o solo in presenza di particolari situazioni di rischio materno o fetale. Dunque l’unico modo per sospettare un eventuale restrizione di crescita fetale tardiva è la misurazione della distanza tra la sinfisi pubica e il fondo uterino, che si può fare a mano durante una visita ostetrica” spiega l’ostetrica. Che prosegue: “La sensibilità riportata in letteratura per questa metodica è molto variabile, ma credo che si possa affermare che riesce a individuare circa il 30-40% dei casi”. In realtà, sull’effettiva utilità di un’ecografia del terzo trimestre come screening per la restrizione di crescita tardiva non è probabilmente detta l’ultima parola. È vero che le linee guida internazionali attualmente disponibili sul tema “restrizione di crescita fetale” (per esempio quelle americane, inglesi, canadesi) non la raccomandano, ma una recente revisione critica di queste linee guida, pubblicata a febbraio 2018 sull’American Journal of Obstetrics & Gynecology, sottolinea come molti degli studi sui quali si basa questa conclusione sono riferiti a ecografie fatte troppo presto, proprio come accadeva in Italia, dove l’ecografia del terzo trimestre era prevista a 30 settimane di gravidanza.

D’altra parte, uno studio inglese apparso su Lancet nel 2015 ha mostrato come un’ecografia fatta di routine a 36 settimane sia in grado di individuare il 57% dei bambini poi nati piccoli per età gestazionale: tutti bambini a maggior rischio di complicazioni che possono essere gestiti in modo più sicuro sapendo mentre sono ancora in utero che hanno rallentato la loro crescita.

Come si interviene

Diciamolo subito: purtroppo, di terapie in grado di invertire la rotta e far riprendere a funzionare una placenta che per qualche motivo ha smesso di farlo non ne abbiamo. Soprattutto per le restrizioni di crescita precoci, quelli più a rischio di mortalità fetale o gravi complicazioni, sono state tentate varie vie, dalla somministrazione di eparina alla permanenza materna in camera iperbarica fino al Viagra (lo ha fatto per esempio studio clinico olandese interrotto un paio d’anni fa per la morte di alcuni neonati): nessuna, però, ha dato i risultati sperati. Lo confermano le linee guida internazionali disponibili, che di fatto come unico intervento possibile indicano l’ottimizzazione del momento del parto.

“Siamo di fronte a bambini che in utero non stanno più bene, perché la placenta non riesce a sostenerne la crescita e l’ossigenazione, e d’altra parte farli nascere troppo presto significa esporli ai rischi della prematurità, tanto più gravi e frequenti quanto più precocemente si presenta il problema. Bisogna dunque cercare il miglior compromesso possibile tra questi rischi contrastanti”. Come? Affidandosi alle indicazioni sul benessere fetale fornite dalla cardiotocografia (il cosiddetto tracciato o monitoraggio) e a quelle sulla circolazione feto-placentare che vengono dalla velocimentria Doppler. “Se si decide per un parto prematuro ci sono misure che possono essere prese per ridurre alcuni rischi, come la somministrazione di corticosteroidi che promuovono la maturazione fetale” puntualizza Nobile. “E ovviamente bisogna far avvenire il parto – spesso cesareo, a meno che non si tratti di restrizioni di crescita lievi o tardive – in centri nascita adeguati, che dispongano di una terapia intensiva neonatale”.

La ricerca di alternative più efficaci, comunque, continua, con studi che puntano anche all’utilizzo di cellule staminali o alla terapia genica, per esempio con vettori in grado di veicolare il fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF), fondamentale per la formazione di nuovi vasi sanguigni: di recente sono stati ottenuti risultati interessanti in un modello animale (babbuini per la precisione), ma è chiaro che la strada da percorrere è ancora molto lunga.

Strategie di prevenzione

Si continua a lavorare anche sul fronte prevenzione, a sua volta ampiamente scoperto. In questo caso un possibile aiuto farmacologico c’è, ed è l’aspirinetta, che ha mostrato una certa efficacia nel ridurre l’insorgenza o la gravità di una condizione chiamata preeclampsia, che spesso si associa alla restrizione di crescita. “Si tratta – spiega Stampalja – di un disturbo ipertensivo che compare in genere dopo le 20 settimane, caratterizzata da aumento della pressione e presenza di proteine nelle urine, ma il problema è che l’aspirinetta funziona solo se assunta prima delle 16 settimane di gravidanza“. Ecco perché a questo punto la sfida diventa identificare precocemente le donne a rischio di preeclampsia, visto che non è pensabile far prendere il farmaco a tutte.

Qualcosa di positivo si è mosso di recente proprio in questo senso: secondo i risultati di un imponente studio condotto dal gruppo di ricerca di Kypros Nikolaides del King’s College di Londra, uno dei massimo esperti mondiali di medicina fetale, si ottengono buoni risultati predittivi utilizzando un algoritmo che combina dati relativi alla pressione materna, al doppler delle arterie uterine e ai livelli ematici di due proteine (Plgf e Papp-A) misurate nel primo trimestre di gravidanza. “Anche le ultime linee guida dell’International Federation of Gynecology and Obstetrics, emanate a maggio 2019, raccomandano l’utilizzo di questi quattro marcatori per uno screening precoce, laddove fattibile” afferma Stampalija, ma ovviamente non sono state ancora fatte proprie da singoli paesi o società scientifiche. “In Italia questi test non sono riconosciuti dal Servizio sanitario nazionale, ma in alcuni centri sono comunque disponibili, o nell’ambito di progetti di ricerca o in compartecipazione di spesa con le pazienti”.

In attesa che ci sia un allineamento delle linee guida sulla predizione del rischio di preeclampsia, quello che si può sicuramente fare è puntare sullo stile di vita anche preconcezionale. La placenta si forma nelle primissime fasi della gravidanza, quindi già prima del concepimento sarebbe bene evitare ciò che potrebbe ostacolarne lo sviluppo (come il fumo di sigaretta o l’alcol) e puntare su un’alimentazione sana ed equilibrata, per esempio di tipo mediterraneo.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Fotografia: Pixabay

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance