Un ratto per amico
Questi piccoli mammiferi sono sempre più diffusi come animali da compagnia: sono altamente sociali, adattabili, curiosi e giocosi.
Sono noti come gli animali delle fogne per eccellenza, che strappano gridolini schifati ai passanti che li vedono frugare nei rifiuti; eppure, i ratti si sono anche affermati a pieno titolo come animali domestici, nella doppia natura di animali usati come modelli per la ricerca in laboratorio e pet di casa. E a buon diritto, perché il ratto (la specie domestica è il Rattus norvegicus) è un piccolo mammifero che può rappresentare un’ottima compagnia nei nostri appartamenti.
Dai combattimenti alle case (e ai laboratori)
Nonostante il nome Rattus norvegicus suggerisca per questo animale origini nordiche, si pensa che la specie abbia origine asiatica e intorno alla metà del XVIII secolo si sia diffusa in Europa (dove, all’epoca, la specie di ratto più comune era il ratto nero, Rattus rattus, il famoso vettore della peste bubbonica) e poco dopo in America. La storia della sua domesticazione, pur non essendo del tutto certa, appare quindi come piuttosto recente, e inizia forse nel XIX secolo con la brutale moda del rat-baiting, i combattimenti tra cani, generalmente di tipo terrier, e ratti. Probabilmente, la comparsa di mutazioni casuali che determinavano il colore albino o nero del mantello nella popolazione selvatica favorì la cattura e i primi esperimenti di addomesticamento su questi individui.
L’allevamento come hobby è fatto risalire al 1901, quando il National Mouse Club inglese fu aperto anche ai ratti; la moda ebbe una prima vita breve, poi rinnovata con la nascita, nel 1976, della National Fancy Rat Society, anch’essa inglese e tutt’oggi attiva nelle esibizioni di questi animali e nella loro promozione come pet. L’utilizzo del ratto come animale da laboratorio è all’incirca coevo. I primi esperimenti di selezione sono attribuiti al ricercatore tedesco Hugo Crampe, che in una serie di lavori condotti tra il 1877 e il 1885 descrisse nel dettaglio gli incroci condotti tra ratti albini, grigi, scuri e pezzati; secondo un articolo del 2012, sarebbe stata proprio la varietà albina la prima ad essere stata addomesticata per scopi di ricerca scientifica.
Gli studi cognitivi
«Il ratto ha avuto un enorme successo come animale da laboratorio: ha dimensioni ridotte, è di gestione relativamente semplice, il ciclo riproduttivo è rapido e presenta diverse caratteristiche fisiologiche e genetiche simili a quelle degli esseri umani, che li rendono un buon modello di studio per diverse ricerche», spiega a OggiScienza Marzia Possenti, medico veterinario esperta in comportamento, che si occupa anche di animali non convenzionali. «Questo ha fatto sì che anche gli studi sulle abilità cognitive si siano basati sui ratti da laboratorio, e manchino invece quelli condotti sui pet».
Ciò può spiegare in parte perché, frugando nei siti degli appassionati, si leggano alcune osservazioni sulle abilità cognitive dei ratti (ad esempio, il fatto che possano riconoscere il proprio nome) che al momento non trovano riscontro nella letteratura scientifica. La quale, tuttavia, non manca di lavori davvero affascinanti su questi nuovi animali da compagnia. Uno dei più recenti riporta un esperimento nel quale gli scienziati hanno insegnato ai ratti a giocare a nascondino, un gioco complesso che richiede di stabilire una strategia e impiegare gli indizi visivi e sonori; un compito che, come OggiScienza ha raccontato qui, questi animali hanno appreso con sorprendente rapidità e che sembra divertirli moltissimo.
Il gioco fra ratti
Diversi studi hanno indagato il gioco inter-specie. D’altra parte, come spiega Possenti, «I ratti sono animali altamente sociali che generalmente vivono in gruppi familiari formati dal maschio, le femmine e i cuccioli, ma che possono instaurare relazioni e interazioni anche con altri gruppi familiari. La loro socialità è profondamente complessa e non stupisce che questi animali abbiano una forte attitudine al gioco in età giovanile, ma che si mantiene anche in età adulta». Il gioco preferito è il play fighting, che potrebbe essere descritto come il corrispettivo del nostro fare la lotta e comprende una serie di momenti di attacco e difesa.
I ricercatori Sergio Pellis e Vivian Pellis hanno studiato a lungo questo comportamento, osservando, tra l’altro, che circa il 30% delle sessioni di gioco comprende un’inversione dei ruoli, per cui l'”attaccante” diventa “difensore”, e che durante il picco massimo di propensione al gioco, in età giovanile, i ratti tendono a compiere manovre e movimenti che compromettono la loro abilità di mantenere stabile la postura e quindi deviare in modo efficace le mosse del compagno di gioco. È stato suggerito che questa perdita di controllo e l’imprevedibilità di come possa evolvere il gioco (ponendosi in una condizione auto-invalidante) possa aiutare i giovani a diventare più resilienti di fronte all’imprevedibilità della vita quotidiana.
Alcuni studi sulla cooperazione
L’elevato livello di socialità dei ratti è alla base anche dei molti studi condotti sulla loro capacità di cooperare. Uno studio pubblicato su PlosONE nel 2010 indagava il comportamento dei ratti in un esperimento basato su una versione modificata del dilemma del prigioniero, un gioco nel quale, in sostanza, se i due partecipanti collaborano avranno una ricompensa maggiore, anche se questo richiede loro un costo. Secondo la ricerca, i ratti sono in grado di adattare la loro strategia a seconda di quella del compagno di gioco, la dimensione della ricompensa e lo stato motivazionale.
Un lavoro di un paio d’anni prima mostrava come i ratti siano più pronti ad aiutare un compagno che li ha a sua volta aiutati in precedenza, e che sono più disposti a prestare aiuto a un nuovo compagno dopo essere stati a loro volta aiutati, dimostrando così che nei ratti è presente la reciprocità diretta, ossia la tendenza a cooperare basata sui comportamenti passati di un partner conosciuto. Non solo: i ratti sembrano perfettamente in grado di riconoscere la qualità del “servizio” reso loro da altri individui, e scegliere i comportamenti di reciprocità su questa base.
Inoltre, nei ratti sono stati osservati comportamenti prosociali, ossia aiutavano un partner in difficoltà senza che questo portasse loro un vantaggio: come OggiScienza ha raccontato qui, questi animali aiutano i compagni in pericolo, soprattutto se hanno sperimentato la stessa situazione.
Comunicazione
«La comunicazione dei ratti è molto ricca e le vocalizzazioni ne rappresentano una parte importante», spiega Possenti. «Consistono in larga parte in ultrasuoni non percepibili all’orecchio umano, anche se alcuni proprietari si attrezzano con strumenti in grado di convertirli nello spettro dell’udibile». La frequenza cui sono emessi i segnali e la loro sequenza rappresenta uno strumento di comunicazione complesso, in grado di portare informazioni sullo stato del ratto (associandosi ad esempio alla manipolazione da parte di un umano estraneo, al gioco, alla presenza di un predatore e così via) e modulare i comportamenti degli altri individui. Ad esempio, alcune delle vocalizzazioni emesse dai cuccioli stimolano il comportamento materno delle femmine, mentre altre emesse dai maschi inducono le femmine ad adottare comportamenti di sollecitazione per la copula.
Nella letteratura scientifica sono diversi gli studi che riportano l’importanza del senso del tatto nei ratti, ad esempio per la localizzazione degli oggetti. Mancano, tuttavia, ricerche su come tale senso sia impiegato nella comunicazione inter-specie. «Ciò che osserviamo nella pratica veterinaria è che i ratti usano molto la comunicazione tattile, impiegando le vibrisse e le zampe. Ad esempio, capita spesso di osservare come i ratti spostino fisicamente, con una zampata, un individuo che non vogliono avere vicino», commenta Possenti. «Si tratta di un aspetto che sarebbe interessante indagare in modo sistematico».
È dimostrato, invece, che i ratti apprezzano molto le manipolazioni da parte di un “amico” umano, e in particolare il solletico, cui rispondono con vocalizzazioni specifiche associate alle emozioni positive e saltelli di gioia (i cosiddetti Freudensprünge). Uno studio del 2016 ha potuto evidenziare le aree cerebrali che si attivano in risposta al solletico, mentre lavori precedenti hanno mostrato come la sensazione piacevole che i ratti associano al solletico li induce a essere più “ottimisti”.
Lavorare con e per i ratti
La veterinaria comportamentale è un campo ancora poco diffuso per i ratti, perché la maggior parte degli esperti lavora con i pet più tradizionali, cani e gatti; tuttavia, le conoscenze acquisite negli anni di ricerca scientifica rappresentano una buona base di partenza per approfondire il campo.
«Il grande impiego delle vocalizzazioni da parte dei ratti, ad esempio, ci è di grande aiuto quando dobbiamo lavorare con individui che presentano problemi legati alla paura o all’aggressività», spiega Possenti. «Il primo passo, infatti, è stabilire un canale comunicativo funzionale tra il ratto e il proprietario, e l’utilizzo della voce può essere molto utile in questo senso. Possiamo infatti impiegare la comunicazione vocale, cui il ratto presta più attenzione rispetto ad altre specie che tendono a vocalizzare meno, per aiutarlo a capire la prevedibilità dell’individuo, ad esempio avvisandolo con una parola che indica ciò che stiamo per fare (cibo, gioco…). In questo modo, il ratto può capire che anche noi abbiamo istanze di comunicazione e restare consapevole senza che si attivi la naturale risposta di attacco o fuga».
Come il coniglio e altri animali che sono prede in natura, infatti, anche il ratto deve essere approcciato e maneggiato con grande delicatezza per evitare di spaventarlo. Questo anche se, sempre come osservato nel coniglio, anche i ratti domestici presentino una minor reattività rispetto alla controparte selvatica, probabilmente correlata alla minor dimensione di alcune strutture cerebrali.
Infine, lavorare per i ratti può significare anche aiutare noi umani a rimodellare la percezione che abbiamo di questi animali. «In Italia, il ratto è un animale che subisce ancora un forte pregiudizio: è visto come un animale nocivo e potenzialmente portatore di malattie. Ecco perché, come ambulatorio, proponiamo anche diverse attività, rivolte ai bambini, per consentire una conoscenza più globale di questa specie, che si è rivelata essere straordinariamente complessa», conclude Possenti.
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