Verso il termine: indurre il parto o aspettare?
Alcuni studi suggeriscono che se il travaglio non parte da solo, dopo le 41 settimane potrebbe essere opportuno indurlo per ridurre il rischio di morte in utero. Ma non tutti concordano
Ogni donna incinta ha ben in mente la sua dpp, data presunta del parto: la data nella quale il suo bimbo dovrebbe nascere se la gravidanza durasse esattamente 40 settimane (o 280 giorni). In realtà è molto improbabile che le donne partoriscano proprio “quel” giorno: qualcuna lo farà un po’ prima, qualcun’altra un po’ dopo. Il problema è che andare “troppo” oltre potrebbe essere rischioso. Si sa per esempio che dopo le 42 settimane aumenta, anche se non di molto, il rischio di un evento devastante come la morte in utero ed è per questo che molti ospedali fissano in prossimità delle 42 settimane il termine da non superare: “In caso di gravidanza a basso rischio, cioè senza particolari problemi, noi proponiamo di indurre il parto a 41 settimane più cinque giorni. Altri punti nascita preferiscono intervenire anche prima” spiega la professoressa Irene Cetin, direttrice del reparto di ostetricia e ginecologia dell’Ospedale dei Bambini Buzzi di Milano.
D’altra parte anche l’induzione ha i suoi lati negativi: con il parto indotto aumentano le epidurali, l’utilizzo di ossitocina, la durata del travaglio, il ricorso alla ventosa ostetrica. E tradizionalmente c’è l’idea che aumentino anche i rischi di andare incontro a un cesareo e di qualche complicazione in più per il neonato. Alcuni studi pubblicati nel corso dell’ultimo anno, tuttavia, sembrano suggerire che questi ultimi rischi non sussistano e che possa essere opportuno indurre ancora più precocemente, a 41 o addirittura a 39 settimane, tanto che la discussione sul “momento giusto” per un’eventuale induzione del parto in una gravidanza senza complicazioni è diventata una delle più “calde” nel mondo ostetrico.
Lo studio SWEPIS e i suoi predecessori
L’ultimo contributo viene dai risultati purtroppo drammatici di uno studio svedese (studio SWEPIS) pubblicato sul British Medical Journal il 20 novembre scorso. L’obiettivo era confrontare in gravidanze singole a basso rischio le conseguenze per mamme e bambini di un’induzione a 41 settimane rispetto all’attesa ed eventuale induzione a 42 settimane. Gli autori avevano programmato di coinvolgere circa 10 mila partecipanti in tutto, ma l’indagine è stata interrotta prima del previsto, cioè quando allo studio avevano preso parte circa 1380 donne per gruppo, per il verificarsi di ben cinque morti in utero e una subito dopo la nascita nel gruppo di controllo, quello dell’attesa. Nessun decesso perinatale si è invece verificato nello stesso periodo di tempo nel gruppo sottoposto a induzione a 41 settimane. Anche se non sono emerse differenze significative tra i due gruppi in termini di effetti perinatali complessivi – relativi anche ad altri esiti negativi, come un indice di Apgar basso a cinque minuti dalla nascita, la sindrome di aspirazione del meconio, l’ipossia neonatale ecc. – tanto ovviamente è bastato al Comitato sulla sicurezza dei dati che supervisionava lo studio per imporne lo stop. E agli autori per concludere che, pur con qualche cautela, l’induzione del parto dovrebbe essere offerta a tutte le donne non oltre le 41 settimane di gravidanza.
Prima di SWEPIS, altri due trial clinici avevano fatto un confronto analogo tra induzione a 41 settimane o attesa e induzione a 42 in donne con gravidanze singole a basso rischio. Il primo è uno studio turco pubblicato quasi 15 anni fa, che aveva registrato una morte in utero nel gruppo di attesa. Il secondo, apparso sempre sul BMJ nel febbraio di quest’anno, è uno studio olandese (INDEX) che ha coinvolto in tutto circa 1800 donne, mostrando l’1,4% di rischi in meno in termini di esiti perinatali negativi nel gruppo sottoposto a induzione a 41 settimane. In particolare, in questo gruppo è stata registrata una morte in utero, mentre in quello di attesa ne sono state registrate due. Mettendo insieme i dati relativi alla mortalità di questi tre studi, un gruppo di ricercatori dell’Università di Birmingham ha concluso che con induzione a 41 settimane il rischio di morte in utero è dello 0,4 per mille, mentre con la condotta di attesa sale a 3,5 per mille. Secondo questi ricercatori, nonostante alcune criticità legate ai limiti statistici degli studi, ce n’è abbastanza per suggerire che l’induzione a 41 settimane diventi una scelta ragionevole per le donne e per chiedersi se sia accettabile dal punto di vista etico condurre in futuro ulteriori studi analoghi.
Non solo. Nell’agosto 2018 i risultati di uno studio americano pubblicato sul New England Journal of Medicine (ARRIVE) avevano portato a concludere che in una popolazione di donne a basso rischio (almeno apparentemente, e vedremo perché) un’induzione addirittura a 39 settimane può essere considerata sicura, non risultando a maggior rischio di eventi avversi perinatali o di parto cesareo rispetto a una condotta d’attesa fino a 41 settimane. Infine, una revisione Cochrane degli studi sull’induzione del travaglio in donne con gravidanze a basso rischio condotti entro la fine del 2017 aveva sottolineato, di nuovo, meno rischi di morti in utero e di parto cesareo per il gruppo indotto “a termine” (in genere a 41 settimane), ma più rischi di parto operativo (con ventosa).
La situazione in Italia
La domanda, a questo punto, è chiara: 41 settimane (ma qualcuno potrebbe dire anche 40, o 39) sono davvero “the new” 42 settimane? Alla luce dei risultati emersi da questi ultimi studi, vale davvero la pena cambiare i protocolli che prevedono un’eventuale induzione di travaglio più vicina alle 42 settimane, anticipandola? Cetin racconta a OggiScienza che in effetti se n’è discusso molto all’ultimo congresso della SIGO, Società italiana di ginecologia e ostetricia, che aveva una sessione dedicata proprio a questo tema alla quale era stato invitato anche uno degli autori dello studio ARRIVE. “In generale noi italiani siamo stati molto critici nei confronti di un approccio di questo tipo e chi era presente a quella discussione si è espresso nella direzione di non utilizzare questi risultati per modificare le nostre pratiche”.
D’altra parte le critiche rispetto a questi studi non mancano. Lo studio ARRIVE, per esempio, ha definito il campione di donne in gravidanza prese in esame “a basso rischio”, ma andando a leggere in dettaglio le caratteristiche di queste donne si scopre che circa la metà aveva un indice di massa corporea (BMI) superiore a 30, cioè era obesa. “Ma per noi l’obesità materna è già un fattore di rischio, tanto è vero che in genere con un BMI superiore a 30 induciamo a 40 settimane più cinque giorni” sottolinea Cetin. A sottolineare che la generalizzabilità dei risultati non può essere data per scontata perché il tipo di popolazione preso in esame è tutt’altro che irrilevante. Quanto a SWEPIS, è inevitabile notare che il numero dei decessi che si sono verificati nel gruppo di controllo è decisamente – e drammaticamente – elevato: in pratica 4,3 casi per 1000 in una sola settimana di gestazione (secondo un commento inviato al BMJ dal ginecologo svedese Pelle Lindqvist, del Karolinska Institutet di Stoccolma, è un tasso cinque volte più alto rispetto all’atteso). Gli autori di SWEPIS non offrono spiegazioni definitive per questo dato, salvo notare che tutti i decessi si sono verificati in donne che erano alla prima gravidanza. Sottolineano tuttavia che tutte le morti si sono verificate in gravidanze che facevano capo a centri clinici al di fuori della regione di Stoccolma, che è l’unica a offrire un’ecografia di routine a 41 settimane. Non è dato invece sapere se in questi sei casi fosse stata fatta o meno un’ecografia a 41 settimane. “Di sicuro il dato di mortalità di questo studio è altissimo ed è possibile che l’eventuale assenza dell’ecografia non abbia permesso di intercettare prima eventuali fattori di rischio, che avrebbero portato a un’induzione precoce per motivi medici” afferma Cetin. Precisando che, al di là di eventuali differenze tra i singoli punti nascita, tipicamente nel nostro paese le gravidanze vicino e oltre al termine sono seguite con molta attenzione e con controlli molto ravvicinati, anche ogni due giorni dopo le 40 o 41 settimane.
Anche per queste criticità, per Cetin non è il caso – per lo meno non ancora – di proporre a tappeto a tutte le donne a basso rischio un’induzione a 41 settimane. “Se fossi una paziente oggi – dichiara – preferirei essere seguita in modo più personalizzato”. Un modo che magari tenga conto non solo degli aspetti strettamente medici e statistici, ma anche delle attese e delle convinzioni personali rispetto al momento del parto.
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