E ora? L’11 febbraio è tutti i giorni
Celebrando la Giornata internazionale delle donne e ragazze nella scienza, è più utile parlare di numeri o di storie?
L’11 febbraio si celebra la Giornata Internazionale delle Donne e Ragazze nella Scienza, voluta dall’Assemblea generale delle Nazione Unite nel 2015. L’evento, giunto al quinto anno e patrocinato dall’UNESCO, ci ricorda anche uno degli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU, l’uguaglianza di genere, «non solo un diritto umano fondamentale, ma una necessità per un mondo di pace, prospero e sostenibile».
Certo, a leggere le prime righe della pagina del Global Gender Gap 2020 del World Economic Forum non c’è per niente da star sereni: «nessuno di noi vedrà la parità di genere nella nostra vita, e probabilmente nessuno dei nostri figli». Risultato scoraggiante dello studio cardine di questo settore, che mette a 99,5 anni il traguardo per raggiungere la parità di genere. E ancora, a leggere i titoli degli articoli apparsi sulla stampa italiana dopo che il team dell’Ospedale Spallanzani di Roma ha isolato e sequenziato il coronavirus, dove le dottoresse sono state definite «gli angeli della ricerca», è palese come questa nuova decade del XXI secolo si trascini dietro stigmi e pregiudizi secolari.
Un po’ di dati
Sentiamo sempre più spesso che le donne si trovano le porte del mondo della ricerca chiuse a causa sia di luoghi comuni sia per politiche inadeguate e, statistiche alla mano, la faccenda sembra essere ancora lontana dall’essere risolta. A proposito di statistiche, secondo l’Istituto di Statistica dell’UNESCO le donne impegnate globalmente nella ricerca in ambito STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) sono poco meno del 30%.
A livello mondiale, un lavoro eccezionale è stato il report del progetto Gender Gap in Science, che ha investigato da diversi punti di vista il gender gap nella scienza.
Saltano subito agli occhi gli ostacoli che le donne sono costrette ad affrontare. Molestie sessuali, scarso incoraggiamento dalla famiglia, mancanza di modelli da prendere come esempio, bassa qualità dei programmi di dottorato e alta formazione, una lenta progressione della carriera e la disparità salariale rispetto ai colleghi uomini.
Negli ultimi dieci anni circa, la comunità globale si è sempre più impegnata in programmi e iniziative per ispirare e coinvolgere sempre più le ragazze nel mondo della scienza. Però, forse, ancora non basta.
Come raccontiamo queste storie?
Da ragazza che è rimasta affascinata leggendo di Lovelace, Curie, Franklin, mi sono chiesta come mai nel tempo queste storie hanno acquisito una potenza unica. Forse perché queste donne, nel loro tempo, sono state donne fuori dall’ordinario. Un ordinario per il quale era impensabile vedere una donna in cattedra: un tempo in cui alle donne non veniva riconosciuto dalla comunità scientifica il loro impegno, se non dopo aver alzato un polverone.
Oggi lo sappiamo che le donne e le ragazze impegnate nella ricerca e nella scienza ci sono, non hanno ancora raggiunto il numero dei colleghi uomini, ma ci sono. Quindi siamo di fronte a un problema di narrazione, una disparità intrinseca nel modo di portare alla ribalta storie ed esperienze di donne che nel loro quotidiano operano a 360 gradi nella ricerca e nella comunicazione di questa. Probabilmente chi si occupa di parlare di scienza e di scienziati dovrebbe tenere a mente che questo ambito è fatto anche di piccole storie, certamente con tanti problemi sociali e politici che solo i policymakers possono concretamente risolvere se si parla di grandi imprese. Ma non dobbiamo dimenticarci che il quotidiano è il punto di partenza per raccogliere testimonianze e racconti che possono ispirare giovani future donne, storie che possono diventare straordinarie nel loro essere così normali.
She is a scientist
Nicole Ticchi è chimica farmaceutica di formazione e nel 2017 ha intrapreso il progetto She is a scientist, grazie al quale studia e comunica la percezione delle donne nella scienza per sensibilizzare le attuali e le nuove generazioni a una maggiore equità e pari opportunità nel settore scientifico e nella ricerca.
«Quello che mi premeva sottolineare era l’aspetto della percezione dai non addetti ai lavori ma anche come si auto percepisce la donna ricercatrice e operante in ambito scientifico. Cosa pensa di dover dimostrare la donna per essere accettata in questo ambito? Quali sono le caratteristiche che da fuori le vengono chieste per essere autorevole in ambito scientifico? Una volta mi sono sentita dire che “non ho la faccia da chimica”. Ma che significa? Allora ho iniziato a ragionare sulla necessità di spostare il focus sull’immagine della donna scienziata, invece che ragionare sul numero di queste».
In una soleggiata giornata di inizio febbraio, abbiamo scambiato qualche pensiero su come, da addette del settore, stiamo affrontando il problema della questione delle donne nella scienza.
Se in un gruppo di ricerca sono solo donne, si sottolinea fin troppo spesso l’eccezionalità della cosa. È ancora così importante far vedere che ci sono donne che fanno ricerca?
Il fatto che ci sono donne che fanno ricerca è la normalità. Quello che è importante sottolineare non è tanto la presenza delle donne nella scienza. È piuttosto la loro autorevolezza nell’essere scienziate e che questo venga loro riconosciuto in ogni momento della loro vita. Spesso la donna, per avere autorevolezza, deve dimostrare di dare di più, sempre di più, e di essere sempre sul pezzo. A un uomo questo non viene chiesto, questa è la disparità che vedo. La normalità della vita di una donna, e cioè avere interessi, una famiglia e altre cose a cui pensare, non deve essere vista come una sottrazione al suo impegno e quindi una mancanza di autorevolezza. Dobbiamo accettare la visione che la donna scienziata è meritevole e autorevole anche se non è sempre focalizzata sul proprio lavoro, proprio come i suoi colleghi uomini.
Se chiediamo qualche nome di scienziata vengono subito in mente Curie, Montalcini, Gianotti. Tutte donne dette straordinarie. C’è forse il bisogno di raccontare anche storie ordinarie?
Io penso che ci sia ancora la necessità di portare alla luce dei modelli di donne che hanno fatto imprese eccezionali ma allo stesso tempo questo va a scapito di un altro problema, cioè una consolidata ansia da performance che hanno di più le donne rispetto agli uomini. Tutti i giorni, in tutti gli ambiti, ci sono donne e uomini che danno il loro contributo alla ricerca e ci tengo a dire donne e uomini. Perché i modelli positivi non si devono dividere tra quelli per le donne e quelli per gli uomini. Dimentichiamoci il paradigma che le donne possono essere d’esempio solo per altre donne. Ci vogliono modelli positivi per ispirare le ragazze e i ragazzi.
Questa ansia da performance credi che freni le donne a emergere nei vari livelli della ricerca? Oltre ai conclamati ostacoli sociali e talvolta politici che rendono difficile per donne arrivare ad alti livelli dirigenziali nel mondo della ricerca?
Noto sempre più che le donne devono dimostrare di fare sempre meglio e sempre di più per meritarsi qualcosa, avere la sicurezza di sapere tutto e avere skills in abbondanza. Ma questo perché pensiamo di dover dimostrare agli altri di meritarci veramente quello che stiamo facendo, una cosa di cui molti uomini non si preoccupano in generale così tanto. È emerso anche in alcuni studi usciti recentemente, in cui si dice che le donne tendono a mostrare di meno i risultati positivi del loro lavoro rispetto alla valorizzazione che ne danno i loro colleghi uomini. Tutto questo per via un understatement che deriva a sua volta da una minore sicurezza di sé. Il più delle volte, siamo noi donne le prime a richiederci di dover dimostrare di saper fare qualcosa. Siamo convinte di doverlo dimostrare per non essere attaccate da un qualsiasi punto di vista.
È chiaramente un problema sociale che si potrà cominciare a risolvere solo con l’insegnamento, coltivando nella fase della formazione della personalità delle ragazze tutte quelle attività che permettano alle bambine di diventare il più possibile self confident, perché la sicurezza in sé stesse vaccina dalla paura del giudizio.
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