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“La cura del freddo”, di Matteo Cerri

Intervista all'autore, medico che dedica le proprie ricerche al freddo, killer e risorsa, dove l'ibernazione passa dalla fantascienza al laboratorio.

Fabbricarsi vestiti, ricercare alloggi e giacigli al riparo dalle intemperie, ingerire una giusta quantità di cibo come “combustibile”, sviluppare sistemi per riscaldare i luoghi in cui soggiorniamo… la storia degli esseri umani è da sempre scandita da una continua lotta contro un killer spietato: il freddo. Matteo Cerri, medico, dottore di ricerca in Neurofisiologia e ricercatore in Fisiologia presso il Dipartimento di scienze biomediche e neuromotorie dell’Università di Bologna, ha scelto il freddo come oggetto dei propri studi oltre che della sua intensa attività di divulgazione. Nel suo ultimo saggio La cura del freddo, uscito recentemente per Einaudi, mette in luce la natura ambivalente della bassa temperatura, che può essere sia pericolo sia risorsa. Abbiamo chiesto all’autore di spiegarci il perché.


 Per gli esseri umani il freddo rappresenta da sempre un nemico temibile, così come, per contro, la gestione dell’aumento della temperatura. Perché avviene? In quali circostanze il freddo può, invece, esercitare un’azione positiva?

Noi, in qualità di essere umani, siamo incatenati a quel vincolo che è l’omeotermia. È una condizione che condividiamo con tutti gli altri mammiferi, un patto che i nostri avi fecero con l’evoluzione: alta temperatura corporea in cambio di elevato consumo di energia. Essere sempre caldi è infatti molto vantaggioso: si è sempre pronti all’azione. Il cervello e i muscoli funzionano al meglio solo se si trovano alla giusta temperatura. Inoltre, essendo noi in grado di produrre il nostro stesso calore, a differenza per esempio dei rettili, ci siamo resi indipendenti dal sole e dal suo calore. Ma questa libertà, come tutte le libertà della fisiologia, viene a un costo: la nostra continua fame di energia. I nostri organi consumano grandi quantità di risorse, e alcuni di questi, come il cervello, non sono molto bravi ad affrontare momenti in cui scarseggino i nutrienti. Ecco, quindi, che noi difendiamo la nostra temperatura corporea con tutte le nostre forze, proprio per essere sempre pronti a essere attivi. Se, quindi, ci raffreddiamo, rispondiamo a questa situazione aumentando la spesa energetica per produrre più calore. Il freddo, quindi, è un nostro nemico, perché ci richiede di spendere maggiori risorse e, nel caso queste risorse finiscano, può portare il nostro corpo in una grave crisi.

Ci sono però condizioni particolari in cui, se riusciamo ad “assecondare” il freddo, possiamo sfruttarne i vantaggi. Quando la temperatura degli organi cala, cala anche la “fame” di energia degli stessi organi. In alcune situazioni particolari, quando i nostri organi più preziosi, come per esempio il cervello, si trovano senza più nutrienti, come in seguito a un arresto cardiaco, abbassare la temperatura del corpo può aiutare questi organi a superare il periodo di crisi, riducendo al massimo gli eventuali danni. Questo viene fatto routinariamente in terapia intensiva, ma in questo caso il potere del freddo può essere usato solo limitatamente. Il raffreddamento dei pazienti viene infatti indotto dall’esterno. Diciamo che sarebbe come voler raffreddare casa nostra accendendo l’aria condizionata ma senza spegnere il riscaldamento. È un equilibrio molto delicato che va gestito con molta cura.

Esistono però alcuni mammiferi che sono in grado di sfruttare il potere del freddo in modo molto più completo. Si tratta degli animali ibernanti. Questi possono raffreddarsi molto di più di quanto non sia possibile fare oggi in ospedale perché usano una strategia diversa: non accendono l’aria condizionata, ma spengono il riscaldamento e aprono le finestre. Ed ecco che in questo modo riescono a rallentare il tempo biologico in modo significativo e attraversare lunghi periodi senza aver bisogno di risorse di alcun tipo.

“Ibernazione” è una parola ricorrente nella letteratura e nel cinema a tema fantascientifico. Ma, tecnicamente, di che cosa si tratta? E si tratta davvero di qualcosa di destinato a restare nell’universo dell’immaginario?

Nella lingua italiana il termine ibernazione è diventato ambiguo. Da un punto di vista tecnico, l’ibernazione è meglio conosciuta con il termine più gergale di letargo. A torto, il letargo viene ritenuto una specie di sonno profondo in cui alcuni animali, come l’orso o lo scoiattolo, sono in grado di restare per la durata dell’inverno. In realtà il letargo è molto diverso dal sonno, e l’attività del cervello in questo stato differisce sostanzialmente sia dal sonno sia dal coma sia dall’anestesia generale. La caratteristica principale del letargo è l’abilità che gli animali hanno di spegnere la propria caldaia metabolica e di raffreddarsi passivamente.

Come abbiamo detto, ibernazione significa letargo, ma, negli ultimi tempi, il termine ibernazione è venuto a significare più spesso crioconsevazione, ossia congelamento della materia vivente. Le due cose sono molto diverse: un organismo che entra in letargo resta vivo, per quanto questo stato sia forse la condizione più vicina alla morte, è ancora parte del grande mondo della vita. La crioconservazione, invece, se applicata a un organismo, uccide l’organismo stesso, proprio perché lo congela. La scienza che studia la crioconservazione si chiama crionica e non è solo fantascienza: viene per esempio applicata agli embrioni o a singole cellule. In questo caso, la dimensione ridotta degli embrioni consente di applicare un protocollo di crioconservazione ma anche di riportare queste cellule in vita. Per motivi tecnici, al momento per lo meno, non è possibile fare la stessa cosa con organismi più grandi.

Va però detto che ci sono animali particolari, come Rana sylvatica, che sono in grado di vivere in una via di mezzo fra ibernazione e crioconservazione. Questi animali, infatti, sono in grado di sopravvivere al congelamento con un abile trucco: limitano la formazione di ghiaccio ai liquidi che si trovano fuori dalla cellula, conservando l’interno delle cellule allo stato liquido grazie all’azione di un antigelo autoprodotto. Sono quindi solo apparentemente congelate.

Quali linee di ricerca legate alla gestione del freddo la coinvolgono direttamente? Quali sviluppi presentano aspetti particolarmente interessanti?

Il mio laboratorio è impegnato nel tentativo di trovare una procedura per poter indurre una condizione simile all’ibernazione anche in mammiferi che non sono in grado di ibernare. Chiamiamo questa condizione “torpore sintetico”.  Nel 2013 riuscimmo a ottenere la prima dimostrazione che questo è in effetti possibile. Da quel momento ci siamo impegnati nel cercare procedure che possano essere in futuro applicate con semplicità agli esseri umani e sul valutare le possibili conseguenze di queste procedure in termini di effetti collaterali e adattamento a questa condizione.

Quali sono le implicazioni etiche degli studi sul freddo e sull’ibernazione?

Una tecnologia che consentisse all’essere umano di entrare in uno stato di torpore sintetico potrebbe cambiare diversi aspetti della medicina e forse anche della vita normale. Questi ipotetici sviluppi sono difficilmente prevedibili adesso, ma, proprio per questo, occorre pensare agli aspetti etici che ne accompagnerebbero lo sviluppo. In alcuni casi si tratta di questioni etiche evidenti: per esempio, su chi testare per la prima volta la tecnologia del torpore sintetico? In pazienti in condizioni cliniche critiche? O su volontari? Altre sono per ora limitate al mondo dell’immaginario: che stato giuridico avrebbe un soggetto in torpore sintetico? Quando andrebbe svegliato? E chi avrebbe l’autorità di chiederlo?


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Anna Rita Longo
Insegnante, dottoressa di ricerca e science writer. Membro del board di SWIM - Science Writers in Italy e socia effettiva del CICAP - Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze