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Guadagnarsi il diritto di contare

Lo scorso 24 febbraio, a 101 anni, è venuta a mancare Katherine Johnson. Brillante matematica, è stata la dimostrazione che il razzismo e la discriminazione di genere sono muti quando si parla di talento.

È il 26 febbraio 2017 e Hollywood risplende per la consueta cerimonia di assegnazione degli Oscar. A metà serata tutta la platea del Dolby Theater di Los Angeles è in piedi ad applaudire non un’attrice, una regista o una sceneggiatrice ma un’anziana sorridente, vestita di azzurro, accompagnata sul palco perché sulla sedia a rotelle, vista l’età.

La diva è Katherine Johnson, una matematica. E nel 1962 John Glenn si fidò solamente dei suoi calcoli anziché di quelli di un moderno – allora – computer IBM prima di decollare per la missione che ha portato il primo americano a orbitare intorno alla Terra.

Ho contato di tutto

Katherine Coleman nacque a White Sulphur Springs, nel West Virginia, il 26 agosto 1918. Ultima di quattro fratelli, fin da giovanissima mostrò una passione per i numeri e un talento nel far di conto. I genitori – la madre Joylette era maestra, il padre Joshua era un contadino che guadagnava uno stipendio extra come custode al Greenbrier Hotel – volevano assicurare ai figli una buona educazione ma dovevano far fronte alla severa segregazione che nell’America d’inizio secolo limitava e proibiva l’accesso alle scuole dei ragazzi afroamericani. Per questo motivo i figli dei Coleman vennero iscritti a un istituto a quasi duecento chilometri di distanza da casa, nella contea di Kanawha. A scuola, Katherine dimostrò di possedere una mente brillante non solo per la matematica ma anche nella lettura e nell’apprendimento delle lingue straniere, tanto da farle saltare un paio di classi visti i suoi rapidi successi. Il risultato fu che la giovane cominciò a frequentare il liceo a soli 10 anni. Dopo il diploma s’iscrisse al West Virginia Black Collage, università per soli neri, laureandosi in matematica nel 1937, a 18 anni.

Io conto tutto. Conto i passi che faccio per strada, quelli per andare in chiesa, il numeri di piatti e stoviglie che lavo, le stelle in cielo. Tutto ciò che può essere contato, io conto. Questo suo amore per la matematica e la sua irrefrenabile voglia di imparare non passò inosservata ai suoi insegnanti, soprattutto a William Waldron Schiefflin Claytor, terzo afroamericano a ottenere un dottorato in matematica: Claytor prese sotto la sua ala Katherine, arrivando persino a organizzare dei corsi di algebra e geometria avanzate apposta per lei, dal momento che Katherine aveva seguito tutti i corsi disponibili, risultando talvolta l’unica studentessa. «Potresti essere un’eccellente ricercatrice in matematica», le disse un giorno Claytor e Katherine, candidamente, chiese quale lavoro, oltre l’insegnamento, poteva trovare un ricercatore in matematica: «lo scoprirai» fu la risposta che ricevette da Claytor.

Terminati gli studi, Katherine seguì le orme della madre e cominciò a insegnare matematica e francese, sua seconda materia di laurea, in una scuola elementare a Marion, in Virginia. Si sposò con James Goble, presto ebbero tre bambine e Katherine si convinse di continuare a fare l’insegnante e a prendersi cura della sua famiglia. Fino a che, nel 1939, venne ammessa alla West Virginia University, abbattendo il primo muro segregazionista che le si presentò avanti: fu l’unica donna afroamericana a essere ammessa, in un gruppo di sole tre persone, dopo una storica sentenza della Corte Suprema del Missouri. Non concluse però questo percorso di studi, dovendo assistere il marito ammalatosi di cancro – morirà nel 1956 – e tornando a insegnare. Nel 1959 si sposò con il colonnello James Johnson, di cui prenderà il cognome che conosciamo tutti.

Che lavoro fa una ricercatrice in matematica?

Determinata a diventare una ricercatrice come le suggerì Claytor, Katherine dovette aspettare il 1952 per avere chiaro quale lavoro poteva svolgere. Durante una visita di famiglia a Newport News, sua sorella e suo cognato le fecero notare che nella vicina NACA – National Advisory Committee for Aeronauticsalla West Area Computer Unit avevano finalmente aperto le porte alle donne afroamericane. Immediatamente Katherine si diede da fare e nel giro di un anno riuscì a entrare nell’unità.

Questo gruppo di donne, i «computer che indossavano la gonna» come una volta la stessa Katherine disse di se stessa e delle sue colleghe, eseguivano complessi calcoli a mano per gli ingegneri programmatori sotto la supervisione di un’altra brillante matematica, Dorothy Vaughan, tra le prime donne afroamericane a guidare un’intera unità alla NACA. Erano gli anni della corsa allo spazio, quando americani e sovietici volevano a tutti i costi avere il primato di portare l’uomo nello spazio, anni in cui una sterminata determinazione prendeva ogni lavoratore alla NACA. Ma erano anche gli anni della segregazione razziale e alla NACA le donne afroamericane come Katherine e Dorothy dovevano usare bagni, mense, persino caffettiere diverse da quelli delle colleghe bianche. Solamente quando la NACA venne accorpata alla neonata NASA nel 1958 ogni tipo di segregazione venne abolita. Nonostante un clima sociale teso, Katherine ha sempre ammesso di non aver sentito troppo il peso del colore della sua pelle nei laboratori della NASA, dove tutti erano impegnati al massimo nella missione che collettivamente si portava avanti. Quando le capitava di vivere episodi razzisti, semplicemente cercava di ignorarli, concentrandosi sul suo lavoro.

Alla fine del 1958 la NASA aveva avviato il programma Mercury con l’obbiettivo di mandare nello spazio il primo volo americano con un equipaggio. Katherine venne quindi assegnata a una nuova divisione dedicata esclusivamente a questa missione presso lo Space Task Group. Come ingegnere aerospaziale, forte della sua precisa conoscenza della geometria analitica e della mente acuta, calcolò le traiettorie di lancio d’importanti missioni, come la Mercury-Redstone 3 che il 5 maggio 1961 lanciò nello spazio la capsula Freedom 7 con a bordo Alan Shepard, primo americano nello spazio e secondo uomo dopo Jurij Gagarin (12 aprile 1961).

Chiamate la ragazza!

Il lavoro alla NASA stava diventando via via più complesso. Dopo lo smacco degli sovietici, gli americani impegnarono tutte le loro forze per mandare il primo uomo sulla Luna e i calcoli di Katherine divennero fondamentali nelle missioni precedenti all’Apollo 11 (16 luglio 1969).

È nel 1962 che il talento di Katherine superò i moderni calcolatori elettronici, i primi computer IBM installati da poco nei laboratori NASA. Il 20 febbraio la capsula Friendship 7 della missione Mercury-Atlas 6 con a bordo John Glenn è pronta a decollare da Cape Canaveral. In una delle ultime comunicazioni con il centro di controllo, Glenn chiese appositamente che fosse Katherine a ricontrollare i calcoli delle traiettorie di lancio e ammaraggio, non fidandosi pienamente dei computer. «Se lei dice che i calcoli dei computer sono corretti, allora va bene», riferisce Katherine in molte delle sue interviste, raccontando la vicenda.

Per altri trent’anni, Katherine Johnson è stata presente e protagonista delle più importanti missioni spaziali americane: dalla già citata Apollo 11, all’Apollo 13, la missione che tenne l’America con fiato sospeso quando i tre membri dell’equipaggio, aiutati anche dal lavoro della Johnson, poterono tornare salvi sulla Terra, fino al progetto Space Shuttle.
Dal 1960, anno in cui firmò il suo primo report NASA e fu la prima donna a farlo, scrisse e firmò altri ventisei documenti di questo tipo.

Fin da quando da bambina osservava il cielo il preside della sua scuola, Sherman Gus, Katherine non ha mai smesso di puntare sempre più un alto il suo sguardo. Tra tutti i riconoscimenti ricevuti nel corso della sua lunga vita, due sono quelli che più l’hanno sbalordita: la Medaglia presidenziale della Libertà, assegnatole dal Presidente Obama nel 2015 e l’intitolazione dell’unità per la sicurezza e il successo delle missioni NASA di più alto profilo, il Verification and Validation a Fairmont. Così commentò Katherine quest’ultimo onore: volete la mia risposta più sincera? Penso che sia roba da matti!

Tenacia, coraggio e nervi saldi fanno di Katherine Johnson l’esempio di una donna che Il diritto di contare se l’è cercato e guadagnato.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Wikimedia Commons

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Serena Fabbrini
Storica della scienza di formazione, dopo un volo pindarico nel mondo della filosofia, decido per una planata in picchiata nella comunicazione della scienza. Raccontare storie è la cosa che mi piace di più. Mi occupo principalmente di storie di donne di scienza, una carica di ispirazione e passione che arriva da più lontano di quanto pensiamo. Ora dedico la maggior parte del mio tempo ai progetti di ricerca europei e alla comunicazione istituzionale.