Reionizzazione dell’Universo: la luce dopo il buio
Durante la reionizzazione, il gas intergalattico da neutro diventa ionizzato per la nascita delle prime stelle. Studiando questo processo si può imparare molto sulla struttura dell'Universo
La nascita delle prime galassie, 13 miliardi di anni fa, è una tra le principali tappe della storia dell’Universo. In quel periodo, l’Universo stava attraversando il suo cosiddetto Medioevo, un’epoca in cui tutto era buio e il gas primordiale era estremamente denso e neutro. Quando si accesero le prime sorgenti luminose, che potevano essere stelle, galassie, quasar o una combinazione di tutto ciò, la loro energia iniziò a riscaldare il mezzo circostante e a reionizzare il gas primordiale. Si parla di epoca della reionizzazione.
Enrico Garaldi è al Max Planck Institut for Astrophysics di Monaco (Germania) per studiare le caratteristiche del processo di reionizzazione e le proprietà delle galassie che ne sono responsabili.
Nome: Enrico Garaldi
Età: 30 anni
Nato a: Modena
Vivo a: Monaco di Baviera (Germania)
Dottorato in: astrofisica (Germania)
Ricerca: Simulazioni dell’Universo primordile
Istituto: Max Planck Institut for Astrophysics (Garching, Germania)
Interessi: camminare in montagna, fare divulgazione scientifica, leggere, giochi al computer e da tavola
Di Monaco mi piace: è vicina alle Alpi
Di Monaco non mi piace: nello spirito è ancora un grosso villaggio della campagna bavarese
Pensiero: Don’t waste your time, or time will waste you. (Muse)
Quale tipo di galassie ha dato il via alla reionizzazione?
A oggi ci sono pochissime prove dirette del periodo di reionizzazione e c’è molta incertezza sull’esatto momento in cui è avvenuta, come e cosa l’ha prodotta. Siamo certi che tutto sia partito dalle prime galassie, ma non è chiaro se tutte abbiano contribuito in ugual maniera o alcune sono state più importanti di altre.
Uno dei grossi dibattiti aperti in astrofisica si chiede se il contributo maggiore sia arrivato dalle galassie piccole, molto numerose ma formate da poche stelle, o da quelle grandi, meno numerose ma fatte da tantissime stelle.
Per rispondere alla domanda, cerco di simulare il processo di reionizzazione attraverso modelli matematici e codici che risolvono le equazioni dell’idrodinamica, le stesse che spiegano perché un aereo vola o come fa una nave ad attraversare l’oceano. Infatti l’Universo, dopo il Big Bang, era permeato da un mare di gas, inteso come un insieme di atomi di idrogeno ed elio molto diluiti, che per effetto della gravità è collassato a formare dapprima singole stelle, poi galassie, ammassi di galassie e infine la ragnatela cosmica.
L’obiettivo della mia ricerca è riuscire a vedere il momento di transizione dell’Universo da completamente neutro a completamente ionizzato.
Come è possibile distinguere l’Universo ionizzato da quello neutro?
Se la reionizzazione è stata generata dalla luce emessa dalle prime stelle, è plausibile pensare che le zone di gas più vicine alla sorgente luminosa si siano ionizzate per prime e poi via via quelle più distanti. Perciò, attorno alle galassie, si possono trovare delle specie di bolle di ionizzazione: poco numerose ma grandi se le galassie da cui tutto è partito erano grandi, molto numerose ma piccole se le galassie erano piccole.
Man mano che la reionizzazione procedeva, le singole bolle crescevano fino a ricoprire l’intero spazio. Noi cerchiamo la fase intermedia di questo processo, quella in cui lo spazio era composto da zone ionizzate (attorno alle galassie) e zone ancora neutre.
Oltre alla dimensione delle galassie, che altri fattori entrano in gioco?
Nei nostri modelli consideriamo diversi parametri, più o meno incerti, per cercare di dare una visione realistica del fenomeno. Per esempio, inseriamo il trasferimento radiativo, cioè come la radiazione emessa da singole stelle o singole galassie modifica lo stato di ionizzazione di un gas. La polvere stellare, costituita da una serie di piccoli granelli solidi sospesi nello spazio che assorbono la luce emessa dalle stelle e riducono la quantità di fotoni disponibili per la reionizzazione. O ancora lo spettro emesso dai quasar molto antichi, che può indicarci il tipo di gas attraversato dalla luce nel percorso fino a noi. Il problema dei quasar è che di quelli molto antichi ne osserviamo molto pochi, per cui c’è meno speranza in questo tipo di approccio.
Infatti, tutti i modelli teorici, per essere validati, vanno confrontati con le osservazioni raccolte dagli astrofisici.
Che tipo di osservazioni usate per questo confronto?
Una tecnica in cui riponiamo molte speranze è la misura della distribuzione spaziale della riga a 21 cm, una particolare radiazione emessa solo dall’idrogeno neutro e non da quello ionizzato.
Negli ultimi 10 anni c’è stato un grosso avanzamento tecnologico nella costruzione di interferomentri radio, cioè grandi gruppi di telescopi collegati tra loro. Uno strumento da cui ci si aspetta molto si chiama SKA (Square Kilometre Array), attualmente in costruzione tra Sudafrica e Australia che, come dice il nome, avrà un kilometro quadrato d’area di raccolta. Con il fatto che SKA osserverà una porzione di spazio e non una singola direzione, gli astrofisici sperano di riuscire a costruire delle vere e proprie mappe della radiazione 21 cm emessa 13 miliardi di anni fa.
Ci sono grandi aspettative anche per il JWST (James Webb Space Telescope), il telescopio spaziale che dovrebbe essere lanciato a ottobre 2021 e che è stato sviluppato proprio per studiare l’origine e l’evoluzione delle prime galassie. Caratterizzare le prime galassie e individuare le bolle di ionizzazione è importante perché cambierebbe il palcoscenico in cui si sono evolute tutte le strutture su larga scala che si trovavano nei loro dintorni e ci permetterebbe di avere nuove informazioni sulle dinamiche dell’Universo.
Quali sono le prospettive future del tuo lavoro?
Una volta creato un modello affidabile per descrivere le proprietà delle prime galassie, mi piacerebbe applicarlo alle grandi simulazioni sulla reionizzazione dell’Universo. L’idea è riuscire a mettere assieme il meglio della conoscenza teorica su questo processo, creare un modello di come pensiamo sia avvenuto e confrontare la simulazione con i dati che potrebbero arrivare nei prossimi cinque-dieci anni da SKA e JWST.
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