Concepire il diverso
Stereotipi, reazioni emotive, inibizioni cognitive ed empatia. Un intreccio complesso che racconta la nostra storia evolutiva e si riflette nell'attivazione di specifiche aree del cervello.
Gli stereotipi, le categorizzazioni approssimative e le semplificazioni sono pane quotidiano per noi, Homo sapiens, pane di cui ci siamo sempre nutriti. Questi elementi hanno svolto un ruolo cruciale nella nostra storia evolutiva; hanno permesso e tuttora permettono al nostro sistema cognitivo di districarsi nella complessità percettiva del mondo che ci circonda. Tuttavia, come insegna Telmo Pievani, evoluzione significa imperfezione. Questa nostra modalità categorizzante, schematica e imperfetta di analisi del mondo e degli altri, se da un lato ci ha condotti fino all’Antropocene, dall’altro ha prodotto conseguenze infelici, se non talvolta tragiche, come il razzismo.
Esiste uno stereotipo chiamato “anomalous is bad”. Si verifica quando, osservando il volto di una persona che presenta anomalie fisiche: cicatrici, ferite, malformazioni, attiviamo inconsciamente una risposta emotiva negativa. Uno studio apparso di recente su The New York Academy of Science indaga sia a livello neurocognitivo che comportamentale questo fenomeno. Gli studiosi chiariscono che vi è un coinvolgimento di una particolare area cerebrale legata, tra le altre, all’emozione primaria di disgusto: l’amigdala, una struttura sottocorticale che fa parte del sistema limbico, filogeneticamente antica e coinvolta direttamente nella produzione emotiva. Dal punto di vista comportamentale, lo studio mostra un minor coinvolgimento empatico e una minore tendenza alla prosocialità dei soggetti sperimentali nei confronti di persone che possiedono anomalie facciali.
Scegliere il simile per risparmiare risorse mentali
Per capire dal punto di vista evolutivo le dinamiche tra i processi emotivi, cognitivi e gli stereotipi legati al diverso, abbiamo fatto qualche domanda a Michela Balconi, professoressa di neuropsicologia e neuroscienze cognitive all’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Professoressa, lo stereotipo “anomalous is bad” riguarda anomalie fisiche oggettive: cicatrici, malformazioni etc. Abituati però agli stereotipi, sappiamo che “anomalo” può essere definito anche il volto di una persona che presenta tratti somatici differenti dai propri: uno straniero, ad esempio. Diversi studi hanno indagato su una simile attivazione emotiva inconscia, sempre prodotta dall’amigdala, anche alla visione di un volto con tratti somatici “anomali”, nel senso di diversi dai propri. Che ruolo evolutivo possono aver avuto tali reazioni di avversione?
“La nostra capacità di distinguere tra ciò che ci è familiare e ciò che non lo è, sia relativamente a oggettive anomalie fisiche che a diverse fisionomie di volti, ha svolto e svolge tuttora una funzione importante. Per le prime, basti pensare che già un neonato a poche settimane di vita manifesta reazioni emotive che riflettono la percezione di un’anomalia di fronte al disegno di un volto in cui la posizione degli occhi e della bocca è stata invertita. La nostra conoscenza deriva dal sedimentarsi di elementi che tendono a ripetersi; se incontriamo qualcosa di nuovo, di differente, proviamo una sensazione di disorientamento, anche di avversione.
È frutto di un bias che deriva dal nostro modo di pensare: noi siamo fatti per selezionare alcune cose e per lasciarne perdere altre. Tale processo selettivo ci permette di risparmiare risorse mentali, e gli elementi più familiari sono più semplici da selezionare. Pensiamo a quando andiamo al supermercato: se la confezione di un prodotto ci risulta strana, diversa da quelle che siamo abituati a scegliere, la lasciamo sullo scaffale. L’essere umano però è fatto anche per cambiare, con parsimonia, ma per cambiare”.
Dal punto di vista dei rapporti interpersonali, questa nostra tendenza, anche emotiva, a favore del “simile” ha però anche delle evidenti conseguenze negative: assistiamo sempre più spesso a episodi di intolleranza. Possiamo tuttavia fare a meno di questa tendenza alla categorizzazione del diverso?
“Provi a pensare se un essere umano adulto dovesse affrontare ogni situazione attraverso l’esperienza di un bambino appena nato: iniziando ogni volta da praticamente da zero. Sarebbe tragico. È molto più conveniente avere dei modelli interpretativi su cui basarsi, proprio nell’ottica di ottimizzazione delle risorse a cui facevo riferimento prima. Questo però non significa che ciò che categorizziamo come diverso equivalga ad avverso. A influenzare la nostra connotazione della diversità in quanto elemento positivo o negativo intervengono meccanismi di livello superiore”.
Per gestire appunto eventuali degenerazioni di questi modelli mentali, come intolleranza e violenza contro il “diverso”, l’essere umano utilizza aree del cervello recenti dal punto di vista evolutivo, come la corteccia prefrontale. Entrano in gioco quindi meccanismi “razionali”, cioè cognitivi, di inibizione…
“Non sono solo i meccanismi puramente cognitivi a intervenire. Sono cruciali gli stessi meccanismi emotivi, come l’empatia: la nostra capacità di immedesimarci nell’altro, che non significa provare le sue stesse emozioni, bensì comprenderle e interpretarle. Anche questa abilità è stata cruciale nella nostra storia evolutiva. Abbiamo imparato che riconoscere le emozioni degli altri e condividerle è vantaggioso, perché si innesta un meccanismo di reciprocità. Non bisogna quindi concepire le emozioni come contrapposte alla razionalità, non sono qualcosa di irrazionale o a-razionale. Provare un’emozione significa elaborare, interpretare, attribuire quindi significato a ciò che ci circonda: è un processo estremamente razionale.”
Esistono però differenze intersoggettive in questi meccanismi. Il grado e il tipo di empatia ad esempio variano notevolmente da individuo a individuo. Quali sono le cause di queste differenze?
“Sono legate anzitutto a caratteristiche di tipo neurofisiologico, derivanti ad esempio da traumi o lesioni in specifiche aree, oppure da processi degenerativi. Esiste anche una componente genetica: ci sono diversi studi che mostrano ad esempio la presenza in tutti noi di una predisposizione di base proprio relativamente all’attività prefrontale, la quale predisposizione favorirebbe la predominanza di uno dei due emisferi sull’altro. Non dobbiamo però mai dimenticare la dimensione culturale: l’individuo è immerso sin dalla nascita in un contesto sociale e relazionale; tale contesto può quindi esacerbare o limitare l’effetto di questa predisposizione di base. Per fortuna, concluderei: significa che non siamo biologicamente determinati sin dalla nascita, che il futuro di Homo sapiens è nelle nostre mani, dipende dalle nostre scelte”.
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