LIBRI

“Genetica e destino” di Alberto Piazza

Uno dei pionieri della genetica delle popolazioni guarda al futuro di questi studi, che dovranno accettare una nuova sfida. Quella della genetica rivolta non più a popolazioni, ma a persone.

“Accattivante ma infido” lo definisce ad un certo punto l’autore, Alberto Piazza, professore emerito di genetica umana all’Università di Torino, il titolo del suo ultimo libro “Genetica e destino. Riflessioni su identità, memoria ed evoluzione” (Codice Edizioni, 2020, 192 pagine, 16 €).

La sua profonda conoscenza della musica classica e dell’opera lirica – da ragazzo sognava di diventare direttore d’orchestra – rappresenta spesso il punto di partenza per molte osservazioni, offrendo al lettore più dubbi che certezze su un tema così attuale. Lo sguardo di Piazza sul futuro è da un lato entusiasta, dall’altro preoccupato: assieme a Luca Cavalli-Sforza, di cui è stato storico allievo, egli è uno dei pionieri della genetica delle popolazioni e, tuttavia, afferma come oggi questi studi siano destinati a “non avere più cittadinanza nel lessico delle nostre ricerche”, che devono avere il coraggio di accettare una nuova sfida: “la genetica rivolta non più alle popolazioni umane, ma alle persone”.

E sono proprio le persone, i lettori, che dovranno prendere le distanze dalle semplificazioni e dal riduzionismo che da sempre elargiscono risposte faziose a domande sulle quali si basa il futuro delle prossime generazioni: i geni sono il nostro destino? La razza esiste?

Il libro non dà una risposta univoca alla prima domanda e, quanto alla seconda, pone il problema di trovare il modo più corretto e persuasivo per comunicare un fatto biologicamente certo: la razza non esiste. Come disse il grande filologo Gianfranco Contini, citato da Piazza nel saggio, la parola razza potrebbe derivare dal francese antico “haraz, allevamento di cavalli, deposito di stalloni, di cui è rimasta in italiano l’espressione “cavallo di razza”. E si spera che tale possa rimanere, un giorno o l’altro.

Razzismo, le radici

Al problema del razzismo Alberto Piazza dedica buona parte del libro, per motivi biografici e scientifici: l’autore è di origine ebrea, durante la Seconda Guerra Mondiale è stato costretto a riparare in Svizzera assieme alla famiglia e, rinchiuso in un campo di internamento, è stato dato in adozione temporanea dai genitori a una famiglia svizzera per scongiurare la sua deportazione in un lager tedesco. La storia di Piazza è simile a quella di altri scienziati italiani, ebrei e non, della sua generazione e di quella precedente. A loro l’autore dedica il “Prologo”, necessario al lettore per comprendere quanto la storia della genetica umana in Italia sia stata e sia tuttora condizionata dalle vicende storiche e culturali del Paese.

Piazza ricorda ricercatori forse poco conosciuti al lettore, ma i cui studi sono stati importanti per portare l’Italia del dopoguerra, reduce dal fascismo, in una posizione di rilievo sul piano della ricerca scientifica mondiale. Sono, ad esempio, le prime tre cattedre universitarie di genetica: Giuseppe Montalenti a Napoli, Claudio Barigozzi a Milano e Adriano Buzzati-Traverso a Milano. Piazza è poi particolarmente legato a Ruggero Ceppellini, con il quale ha lavorato a lungo, per la sua fondamentale ricerca sull’istocompatibilità nei trapianti d’organo.

L’autore si sofferma sull’esperienza di Lucio Luzzatto, genetista oncologo di fama mondiale per la ricerca sulle malattie del sangue, che ha risollevato il Laboratorio Internazionale di Genetica e Biofisica (LIGB) di Napoli dopo le dimissioni di Buzzati-Traverso: a lui dedica alcuni passaggi per ricordare al lettore come sia lo studioso “che meglio ha saputo combinare il lavoro scientifico e quello clinico”.

Sono altresì raccontate le pagine buie della ricerca medico-biologica italiana, con le figure di Luisa Gianferrari, sostenitrice dell’eugenetica – chiamata “miglioramento della stirpe” delle popolazioni alpine – e di Luigi Gedda, tra i primi firmatari del Manifesto della razza del 1938, attivista dell’Azione Cattolica, docente della prima cattedra di genetica medica all’università “La Sapienza” di Roma in tempi, si riteneva, non più sospetti: era il 1960.

Genetica e cultura vanno a braccetto

Nel libro Piazza non smette mai di sottolineare come genetica e cultura siano due elementi inscindibili dell’identità degli esseri umani: se oggi viviamo in un “social network genomico”, come lo definisce Sergio Pistoi in “Il DNA incontra Facebook. Viaggio nel supermarket della genetica”, uno dei testi cui fa riferimento l’autore, è perché l’ambiguità, per cui viene contrabbandata “per ricerca di identità biologica ciò che in realtà è una ricerca di identità culturale”, è parte costitutiva della nostra società. Si pensi a come il linguaggio della biologia molecolare mutui moltissimi termini da quello informatico: codice genetico, chiavi di lettura, sequenze di lettere del DNA da decifrare, libro aperto da trascrivere.

Nel tentativo di evitare tale ambiguità, il linguaggio scientifico chiede comunque prestiti da altri saperi affinché la conoscenza possa arrivare al pubblico. Come l’autore, che ricorre alla letteratura per tratteggiare un parallelismo tra genetica, evoluzione del linguaggio e cultura, come già del resto affrontato nel saggio, scritto con Franco Moretti, La letteratura vista da lontano di cui si trovano numerosi richiami.

L’enorme mole di conoscenze nel campo della genetica restituisce una “percezione falsata” del ruolo dell’essere umano nel mondo e la divulgazione scientifica soffre, spesso purtroppo, di questa condizione, mirando a un’eccessiva semplificazione della genetica tra il pubblico. L’affasciante riflessione umanistica e scientifica di Piazza porta il lettore a comprendere come il genoma non sia tutto: anche quando si conosce il gene, o i geni, alla base di alcune malattie questo non significa, automaticamente, ammalarsi. Si può affermare, infatti, che solo il 50% del nostro patrimonio genetico contribuisca a determinare lo stato di salute, mentre nell’altro 50% è implicato l’interattoma – l’interazione tra i geni – e l’ambiente esterno, l’epigenetica.

Il destino del singolo essere umano non è scritto completamente nei suoi geni: le conoscenze scientifiche evidenziano la complessità del problema e la non dimostrabilità del determinismo genetico. Molti, e controversi, sono gli elementi da prendere in considerazione, tra questi l’inconscio poichè “Ciò che chiamiamo caso, fortuna, fatalità, è un progetto elaborato da motivazioni inconsce” scrive Piazza. Un orizzonte recente nel quale le neuroscienze si stanno muovendo e che porterà nuove complessità e riflessioni per rispondere alla domanda: “i geni sono il nostro destino?”.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Federica Lavarini
Dopo aver conseguito la laurea in Lettere moderne, ho frequentato il master in Comunicazione della Scienza "Franco Prattico" alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste (SISSA). Sono giornalista pubblicista e scrivo, o ho scritto, su OggiScienza, Wired, La Lettura del Corriere della Sera, Rivista Micron, Il Bo Live, la Repubblica, Scienza in Rete.