COSTUME E SOCIETÀ

Il sushi lascia il segno. Genetico

Nei giapponesi, la dieta ricca di alghe ha favorito il trasferimento di alcuni geni tipici di batteri marini in un batterio dell’intestino

COSTUME – C’è qualcosa di unico nell’intestino dei giapponesi: un batterio capace di digerire gli zuccheri delle alghe, grazie a un gene preso in prestito da lontani parenti oceanici. Un’esclusiva che si deve alla loro passione per il sushi e in particolare per le alghe (ne consumano ben 14,2 g al giorno a testa). Dài e dài, continuando a inghiottire alghe non sterilizzate, i giapponesi hanno finito con il mangiarsi pure alcuni batteri che sulle alghe ci vivono perché se ne nutrono. Batteri che, una volta raggiunto l’intestino umano, hanno ceduto ai microrganismi là residenti i geni necessari per la digestione degli speciali zuccheri delle alghe .

A scoprire l’insolito prestito è stato un gruppo di microbiologi della stazione biologica di Roscoff, in Bretagna. E qui ci vorrebbe un applauso virtuale, perché il loro studio fornisce una prima chiarissima prova di una cosa che si sospetta da tempo e cioè che i batteri contenuti negli alimenti possono trasferire i loro geni a quelli presenti naturalmente nel nostro intestino. O, più in generale, che quello che mangiamo (e come lo cuciniamo) può influenzare la natura del nostro microbioma intestinale.

Tutto in realtà è cominciato un po’ per caso. Mirjam Czjzek e i suoi collaboratori sono partiti cercando di capire che enzimi occorrano per digerire i carboidrati (cioé gli zuccheri) delle alghe, che sono speciali perché contengono anche atomi di zolfo. Per riuscirci, si sono concentrati su un gran mangiatore di alghe rosse, il batterio oceanico Zobellia galactonivorans. Ben presto si è capito che il microbo conteneva diversi geni codificanti per enzimi in grado di compiere la difficile digestione, così i ricercatori hanno cominciato a confrontare le sequenze di questi geni con quelle contenute in banche dati dette metagenomiche, che raccolgono i genomi complessivi di batteri presenti nell’ambiente (o negli esseri umani).

Come atteso, hanno trovato geni simili in diversi batteri marini. Ma c’è stata anche una sorpresa: geni simili erano presenti anche in un batterio intestinale umano, Bacteroides plebeius, di cui si conoscono sei ceppi, tutti individuati in persone di nazionalità giapponese. A ulteriore verifica, Czjzek e colleghi hanno cercato i geni in questione nel metagenoma batterico intestinale di 13 giapponesi e di 18 americani, individuandoli in 5 persone del primo gruppo, ma in nessuna del secondo.

Per i ricercatori la spiegazione del fenomeno è semplice: in Giappone, le alghe costituiscono un ingrediente fondamentale e quotidiano della cucina e, fino a poco tempo fa, in molte preparazioni (come il famoso sushi) venivano servite crude e quindi non sterilizzate (la cottura uccide eventuali batteri associati). Così, alcuni batteri che vivono tipicamente sulle alghe, come appunto Z. galactonivorans, possono essere entrati in contatto con quelli dell’intestino, prestando loro geni utili per digerire le alghe stesse. In batteri esposti quotidianamente alle alghe, la capacità di digerirle al meglio, estraendone più energia, rappresenta un bel vantaggio: ecco perché questi batteri si son tenuti il prestito ben stretto e si sono stabilizzati nell’intestino dei giapponesi.

Niente da fare, invece, per gli americani (o per tutte le altre popolazioni che mangiano alghe solo occasionalmente, o le mangiano cotte): in queste circostanze le occasioni di incontrare batteri marini vivi in quantità sufficienti da rendere fattibile lo scambio di geni sono davvero poche, per non dire nulle. E per un batterio intestinale per esempio “italiano”, che solo di rado incontra delle alghe, il fatto di possedere un gene capace di digerirle non è di nessun aiuto. Anche se andate pazzi per il sushi, insomma, è difficile che ospitiate anche voi un Bacteroides plebeius.

Resta il fatto che, come si diceva, lo studio indica chiaramente un ruolo delle abitudini alimentari (e quindi culturali) nella definizione del nostro microbioma batterico. Il che fa sorgere spontaneamente altre domande. Per esempio: con la globalizzazione, anche alimentare, che succederà nelle prossime generazioni alla diversità batterica intestinale delle varie popolazioni umane? Tenderà a uniformarsi? E ancora: pur riconoscendo l’importanza che la sterilizzazione dei cibi ha avuto nella protezione da infezioni alimentari, che impatto avrà sui nostri batteri il fatto di nutrirsi (almeno nei paesi sviluppati) di cibi sempre più “incontaminati”?

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance