CRONACA – Una nuova strategia di “caccia” al metallo batterico rivela che i microrganismi incorporano e utilizzano molti più metalli di quanti pensassimo. Con interessanti prospettive pratiche.
Ci sono scoperte – ed è proprio questo il bello della scienza – che costringono i ricercatori ad aprire gli occhi su un profondo abisso di ignoranza (detto, ovviamente, nel senso letterale e non dispregiativo del termine). E’ il caso di quella in cui si sono imbattuti alcuni microbiologi americani che hanno tentato di classificare tutti i metalli presenti, in associazione a proteine, in tre diversi batteri. I metalli in questione si sono rivelati molto più numerosi di quanto atteso, a testimonianza del fatto che, finora, gli scienziati hanno completamente sottostimato la diversità e la numerosità di complessi chimici basati su metalli nel metabolismo batterico .
La scoperta, pubblicata online due giorni fa sulla rivista Nature, è interessante anche per un altro motivo, questa volta di tipo metodologico. Cercare metalli associati a proteine nei microrganismi è sempre stato un lavoro lungo e complesso; l’articolo, invece, descrive una nuova strategia più efficace, basata sulla combinazione di due tecniche biochimiche principali: cromatografia liquida e spettrometria di massa con sorgente al plasma.
Le “cavie” dei ricercatori sono state tre: Escherichia coli (noto inquilino del nostro intestino) e due microrganismi amanti degli ambienti estremi, Pyrococcus furiosus (nella foto, vive nelle sorgenti idrotermiche sottomarine) e Sulfolobus solfataricus (raccolto in una sorgente calda nel Parco nazionale di Yellowstone). Ora: che i microbi assimilino metalli dall’ambiente e li incorporino nelle loro proteine, dove svolgono la funzione di stabilizzatori e catalizzatori di fondamentali reazioni chimiche e processi biologici (dalla fotosintesi alla respirazione, alla riparazione del DNA), era cosa nota. Quello che gli scienziati non avevano previsto era la varietà di metalli coinvolti.
Prendiamo il P. furiosus: le tecniche di analisi biochimica hanno evidenziato la presenza di 343 tipi di molecole contenenti metalli. Ben 158 non corrispondevano ad alcuna metalloproteina nota. Di questi, circa la metà riguardava metalli il cui impiego era comunque già stato descritto nel microbo (cobalto, ferro, nichel, tungsteno, zinco), mentre un’altra metà riguardava metalli mai descritti primi in P. furiosus, come piombo, manganese, molibdeno, uranio e vanadio. E risultati analoghi, con associazioni specie-specifiche di metalli, si sono ottenuti per gli altri due batteri.
La sorprendente osservazione ci dice che c’è ancora molta strada da fare prima di comprendere a fondo la biochimica dei batteri. Ma dice anche che all’orizzonte sembrano esserci interessanti prospettive applicative: la nuova tecnica di “caccia al metallo” batterico potrebbe velocizzare la ricerca di microrganismi utili (così come sono o opportunamente modificati) per lo sviluppo di nuovi biocarburanti o di metodi di bioremediation (rimozione di inquinanti).