Ascolta l’intervista integrale a Vincenza Pellegrino
NOTIZIE – A Napoli si studia l’immaginario sulla questione rifiuti, allo scopo di condurre campagne di informazione che vengano incontro alle necessità dei cittadini. Ora però sia i risultati di questo studio che quelli di un biomonitoraggio sulla salute dei cittadini restano bloccati in attesa di decisioni istituzionali. Nel parliamo con Vincenza Pellegrino che oggi a MAPPE, il IX convegno nazionale di comunicazione della scienza, ha esposto i dettagli di questa ricerca
Vincenza Pellegrino, Dove è nata l’esigenza di studiare l’immaginario sull’emergenza rifiuti a Napoli?
Innanzitutto da un senso di angoscia dei ricercatori epidemiologi che si dovevano preparare a quando avrebbero comunicato i risultati di uno studio di biomonitoraggio. Durante un tavolo di discussione – molto informale – mi dissero: “è un contesto sociale troppo complesso e prima di scendere e confrontarci dobbiamo sapere cosa bolle nella testa dei napoletani” . Ho trovato questo senso di angoscia dello scienziato che non si sente più sicuro del proprio ruolo, ma anche incerto su cosa sta facendo (a chi lo dico? Magari ne sa più di me) una cosa davvero matura. Dunque ho proposto loro di andare a indagare che idea di malattia e di rifiuto ci sia a Napoli. Gli epidemiologi hanno accolto questo progetto (grosso, perché per due anni abbiamo coordinato una ventina di studenti) favorevolmente. Abbiamo problematizzato il fatto di come il corpo viene toccato dai rifiuti, come vi entrano, se fanno paura, chi dovrebbe gestire questa cosa e chi è lo scienziato che potrebbe illuminare il cammino da fare
In che modo siete riusciti a instaurare un rapporto di fiducia con i cittadini che questo problema lo devono sentire letteralmente sulla pelle?
La prima idea è stata la costituzione di un equipe interdisciplinare in cu coinvolgere delle persone di Napoli, tre figure dell’Università (Amato Lamberti, Rossella Bonito Oliva e Marino Gnola, che sono una filosofa, un antropologo e un sociologo) chiedendo proprio di costruire una rete di giovani studiosi e associazioni che ci facessero da mediazione. Abbiamo messo assieme venti tra dottorandi e tesisti, tutti dei paesi dove dovevamo andare, paesi dove il capitale di fiducia è bassissimo, dove nessuno ti fa entrare in casa.
Noi ci eravamo dati l’obiettivo di incontrare persone non attiviste. Persone comuni che però avevano la casa attaccata a un sito abusivo. E in più volevamo persone che sono esposte al pensiero del proprio corpo: madri che stavano allattando, fruttivendoli, macellai, insegnanti di educazione ambientale. Insomma persone che per collocazione esistenziale dovevano per forza aver pensato a quella cosa li.
Cosa è emerso dallo studio?
Innanzitutto, come dicevamo, che c’è un grosso problema di cambiamento del ruolo della scienza e dello scienziato nei nuovi contesti di conflitto sociale. Perché si tratta di una scienza che come l’epidemiologia è una scienza probabilistica, dunque dalle molte interpretazioni e dalle più verità. Una nuova immagine della scienza in cui l’interpretazione è un atto politico. Una scienza che guarda con nuovi occhi a se stessa. Uno scienziato che si immaginava neutro – non è nella sua formazione questa capacità di vedere la propria responsabilità – oggi si trova espostissimo perché il collega lo smentisce. Si trova ferito e impreparato.
È emerso inoltre che la gente comincia a immaginarsi una scienza diversa. Il mito della scienza viene molto attaccato. Anche gente laureata, molto preparata e stimata si smentisce. E da qui nasce la paura, questo capitale di fiducia che va scomparendo.
Dai dati poi è emersa anche l’esistenza di pubblici diversi: chi ha molta paura del cibo, chi dell’aria, chi pensa che debba venire l’esperto da fuori, chi che l’esperto da dentro debba liberarsi ed essere aiutato a farlo, rappresentazioni molto diverse insomma.
Come avete poi usato questi dati?
Abbiamo fatto un’analisi scientifica molo accurata e siamo arrivati a dei risultati. Poi ci siamo detti dobbiamo farne qualcosa, dobbiamo scendere tra la gente e comunicare davvero. In realtà tutto si è bloccato. Perché l’idea di mettere la comunicazione scientifica apertamente nel conflitto sembra ingestibile per tutti, sia per gli scienziati che sono preparati concettualmente ma impreparati a gestire un conflitto sociale, sia per la istituzioni che concepiscono il conflitto come qualcosa da tenere separato dalla vita istituzionale. Siamo bloccati in questa fase. Io e alcuni collaboratori stiamo pensando di andare avanti in maniera autonoma, di usare questi dati. Non abbiamo accesso a quelli epidemiologici, però alle interviste sì e abbiamo chiesto anche a un avvocato se possiamo usarle.
I dati del biomonitoraggio sono stati resi pubblici?
No. Non sono stati resi pubblici. Adesso ci sono. Io, solo in via informale, so più o meno cosa dicono, ma sono ancora bloccati. Il Ministero della salute sta decidendo quando, come e dove comunicarli. E qui si apre anche nel pratico il problema del grosso legame fra scienza e potere