CRONACA – No, non si tratta di una tassa sui chili di troppo che avete accumulato negli ultimi mesi, ma una aumento del prezzo dei cibi ad alto contenuto di grassi, per scoraggiarne l’acquisto. In periodo di crisi è facile che spuntino nuove tasse per riempire le casse dello Stato (e alleggerire le tasche dei contribuenti) . È di pochi giorni fa la notizia che la Danimarca ha istituito la nuova fat tax: una tassa che colpisce i cibi con un contenuto superiore al 2,3% di grassi saturi. L’aumento è in vigore dal primo ottobre e da 13 giorni i cittadini danesi devono pagare 16 corone in più (che corrispondono a 2,15 euro) per ogni chilo di grassi saturi degli alimenti. La Coldiretti ha accolto positivamente la decisione danese e dopo neanche due settimane già altri governi pensano di copiare l’idea, come David Cameron che vorrebbe importarla anche in Gran Bretagna.
La percentuale di obesi in Danimarca è di circa il 10%, ben al di sotto dei livelli statunitensi che raggiungono il 33.8% negli adulti e il 17% negli adolescenti, e inferiore anche alla media europea, che si aggira intorno al 20%. Diversi condividono l’idea che la decisione del governo danese sia stata spinta più da motivi economici piuttosto che per migliorare la salute dei cittadini: secondo i primi calcoli, un pacco di burro da 250 grammi oggi costa il 14,1% in più rispetto a un mese fa.
Prima della Danimarca, anche altri Paesi hanno deciso di introdurre nuove tasse su diversi alimenti. La Francia ha varato la “tassa sulla Coca Cola”, colpendo le bevande gasate e ricche di zuccheri; l’Ungheria ha deciso per una “tassa anti-obesità” colpendo i cibi ricchi di grassi, sale e zuccheri, e ora seguono a ruota Finlandia, Norvegia e Regno Unito.
Tassare i cibi non sani potrebbe essere la soluzione per ridurre l’obesità e le malattie legate alla cattiva alimentazione, incoraggiando la popolazione ad adottare stili di vita migliori evitando cibi come burro, patatine fritte e pranzi da fast food, ma le critiche alla nuova decisione del governo danese non mancano. La fat tax colpisce i grassi, senza considerare la composizione generale degli alimenti. Burro e latte e patatine vengono messi sullo stesso modo, senza considerare che i prodotti caseari contengono altri nutrienti importanti che aiutano a ridurre l’effetto negativo dei grassi sull’organismo. Ma come sottolineano i produttori danesi, va assolutamente ricordato che quello che fa male è l’eccesso di grassi saturi non un loro corretto utilizzo all’interno di una dieta equilibrata.
Un’altra critica riguarda il fatto che solamente i grassi saturi vengono messi sul banco degli imputati, come causa principale dell’aumento dell’obesità, mentre anche altri alimenti sono responsabili del fenomeno. E non è tutto. Come riporta il Washington Post, citando una ricerca del 2007 del Forum for Health Economics and Policy, una fat tax del 10% ottiene un impatto di meno dell’1% sul consumo globale di grasso e servirebbe un aumento ben del 50% per osservare una riduzione del 3%. Resta quindi il dubbio dell’effettivo risparmio che il sistema sanitario nazionale avrà grazie a una riduzione delle malattie croniche legate all’obesità.
Ma introdurre una tassa sui cibi è davvero una buona idea per combattere l’obesità? Il messaggio che arriva ai cittadini è davvero quello di incoraggiarli ad adottare stili di vita più sani? Oppure l’idea che resta è che il governo ha deciso di colpire la tavola, dopo aver già tassato alcolici e tabacco, ma nascondendosi oggi dietro all’alibi della salute? È auspicabile però che almeno in parte gli introiti derivati dalla fat tax vadano a contribuire allo sviluppo di campagne a sostegno di quel 10% della popolazione affetta da obesità e per promuovere realmente stili di vita sani.