LA VOCE DEL MASTER – Comprendere i meccanismi del pensiero umano e quali sono i legami fra il il nostro cervello e quello degli animali è uno dei quesiti che le scienze neurobiologiche cercano di affrontare da tempo. Ne abbiamo parlato con Giorgio Vallortigara, professore di Neuroscienze al Centro Mente e Cervello dell’Università di Trento. Vallortigara è autore, da solo o in collaborazione, di centinaia di pubblicazioni in riviste scientifiche internazionali e di vari libri di divulgazione. L’ultimo, in ordine di tempo è La mente che scodinzola, edito da Mondadori e pubblicato qualche mese fa.
Partiamo subito con un argomento controverso: quali criteri sono alla base della scelta degli animali da usare come cavie nella ricerca neurobiologica?
C’è da sfatare l’idea che negli esperimenti si scelga l’animale più vicino all’uomo sulla base del budget: se il ricercatore non ha fondi usa le cavie, altrimenti usa le scimmie. In realtà non si scelgono gli animali in base alla somiglianza con l’uomo ma in base al problema da analizzare. Si possono usare gli animali più strani, scarafaggi, sanguisughe, cornacchie. Ad esempio, gran parte della genetica umana è stata ricostruita a partire dai geni del moscerino della frutta, che è quanto di più lontano dall’uomo si possa immaginare.
E dunque perché la scelta di fare esperimenti con le galline?
Noi usiamo galline, anzi i pulcini, perché vogliamo capire l’origine della conoscenza – cioè con che genere di sapienza un piccolo vertebrato viene al mondo. Il problema è distinguere cosa è disponibile in forma innata nel genoma degli animali e cosa invece nasce dalle esperienze fatte. Se usassimo neonati di altre specie come ad esempio i cani, le scimmie o anche della specie umana, sarebbe molto più difficile, perché ci vogliono mesi o anni perché maturino dal punto di vista motorio. I pulcini invece nascono già molto pronti da questo punto di vista.
Ha senso distinguere fra animali più intelligenti e animali più primitivi?
C’è un insieme di conoscenze innate comune per tutte le specie. È il cosiddetto “kit cognitivo di sopravvivenza”: i concetti di numero, di spazio, di tempo, di causalità esistono nel cervello di tutti i vertebrati, quasi come delle categorie kantiane. Non ha senso parlare di animali più primitivi per le specie oggi esistenti: se prendiamo ad esempio i pesci, non sono più primitivi di noi, perché si sono evoluti nel tempo proprio come la specie homo sapiens, e quindi rappresentano il massimo grado di adattamento prodotto dall’evoluzione.
Meglio non usare quindi nemmeno la parola “intelligenza”…
È un termine troppo generico. La biologia evoluzionistica ci permette di inquadrare il comportamento in termini di selezione degli individui sulla base della fitness, cioè del successo riproduttivo, a conferma delle teorie darwiniane. Ciò non implica un migliore uso della mente, ma solo che gli specifici meccanismi di computazione che avvengono nel cervello siano più o meno adatti ai bisogni di una determinata specie. Certe cose riescono meglio a noi, certe altre riescono meglio alle altre specie.
Lei ha affermato che il cervello non ci serve per avere una rappresentazione “veritiera” della realtà. In che senso?
Per sopravvivere dobbiamo poter riconoscere la realtà, ma non c’è bisogno di veridicità – il comportamento animale si basa su regole che funzionano e che non definiscono necessariamente la realtà. Prendiamo ad esempio il ragno saltatore: per il maschio della specie esistono solo due cose al mondo: le femmine e il cibo, e le distingue così: se vedo cose piccole le mangio, se però hanno le zampe cerco di fecondarle. Anche noi umani usiamo delle regole per orientarci nel mondo. Per quanto complesse, queste regole potrebbero apparire ridicole se viste da un’entità superiore, così come a noi potrebbe sembrare rozza la concezione del mondo che ha il ragno.