CRONACA – Le riviste scientifiche prestigiose fanno una selezione dei paper totalmente artificiale, limitando il numero di quelli che vengono accettati in base ai propri interessi di marketing: una policy che alimenta la domanda, ma compromette il livello della ricerca.
È questa l’aspra critica mossa da Randy W. Schekman dell’Università della California, Berkeley, premio Nobel 2013 per la medicina, che ha dichiarato di non aver più intenzione di sottoporre alle riviste d’elite i paper del suo laboratorio. Grandi nomi come Nature, Cell e Science, secondo Schekman distorcono il processo scientifico, instaurando una vera e propria tirannia dell’informazione e mirando in primo luogo a curare il loro brand per vendere più abbonamenti.
Conseguenze: secondo Schekman la pressione di pubblicare sulle riviste “di lusso” incoraggia i ricercatori a intraprendere scorciatoie, e a lavorare in modo poco preciso per fare ricerca in ambiti di tendenza. Non per niente, aggiunge, sono sempre di più i paper che vengono ritirati in quanto inesatti o fraudolenti. Ebbene sì, c’è la ricerca trendy. E distrae da lavori più importanti come gli studi di conferma, che validano i risultati ottenuti rifacendosi a uno dei principi più importanti del metodo scientifico: la ripetitibilità degli esperimenti. Perché dunque uno scienziato dovrebbe impegnarsi tanto per vedere il proprio lavoro pubblicato su una rivista famosa? La risposta non è ridotta alla nomea e al prestigio che ne derivano, ma si riflette direttamente nel riconoscimento professionale e nella possibilità di avvicinarsi a realtà di ricerca d’elite, spiega Schekman: proprio qui comincia l’ingiustizia.
Come conferma Daniel Sirkis, postdoc nel laboratorio di Schekman, molti scienziati sprecano tantissimo tempo cercando di far pubblicare il proprio lavoro su Cell, Science o Nature. “È senz’altro vero che potrei avere maggiori difficoltà nell’ingresso in istituti prestigiosi senza aver pubblicato paper in queste riviste durante il postdoc. Tuttavia non penso vorrei fare ricerca in un contesto che elegge questo criterio a uno dei più importanti nell’ottica delle assunzioni”.
Entrambi concordano sul fatto che il problema è stato esacerbato dagli editori stessi, che non sono scienziati attivi nella ricerca ma professionisti della comunicazione e favoriscono quel tipo di studi che più facilmente fa notizia (anche con il grande pubblico). Un esempio? Il prestigio derivato dall’apparizione sulle principali riviste ha portato la Chinese Academy of Sciences a pagare gli autori di successo l’equivalente di 30.000$. Come ha commentato Schekman in un’intervista, alcuni ricercatori hanno percepito la metà dei propri guadagni proprio attraverso queste “mazzette”.
Tutta la comunità scientifica viene incoraggiata ad attivarsi e prendere posizione: “Ho pubblicato anche io su queste riviste, compresi i paper che mi hanno portato a vincere il premio Nobel. Ma non accadrà più”, scrive Schekman, “Proprio come Wall Street e i sistemi bancari devono mollare la presa sulla bonus culture, così la scienza deve dire basta alla tirannia delle riviste di lusso.”
Schekman, biologo, premio Nobel ed ex direttore della rivista Proceedings of the National Academy of Science (Pnas) è anche l’editore di eLife, rivista online fondata da Wellcome Trust. Gli articoli sottoposti a eLife, concorrente di Nature, Cell e Science, vengono discussi da revisori che sono a tutti gli effetti scienziati attivi nella ricerca, e vengono accettati solo nel caso l’approvazione sia unanime. I paper selezionati sono poi accessibili e visionabili gratuitamente per chiunque. Secondo Schekman, è questo il giusto iter che un paper dovrebbe percorrere tra l’uscita dal laboratorio e la pubblicazione, e parte della risposta al problema starebbe qui, nelle riviste open access. Sono gratuite per tutti e non hanno costosi abbonamenti da promuovere, sono nate sul web e possono accettare tutti i paper che rispettano gli standard qualitativi. Molti di questi sono revisionati da scienziati perciò il valore, a prescindere dalle citazioni, viene stabilito su basi “più scientifiche”.
Anche l’impact factor non viene risparmiato dall’acerba critica del premio Nobel: attribuire un valore scientifico a un paper in base alle citazioni ricevute in altri articoli sulle riviste, secondo Schekman è un mero strumento di marketing. Nel suo articolo d’accusa sul Guardian lo definisce un gimmick ovvero un trucco, uno stratagemma che è sbagliato interpretare come metro di qualità. Si tratterebbe secondo lui di un’“influenza tossica” sulla scienza che introduce una vera e propria distorsione nella valutazione: la diffusione per citazioni di un paper, infatti, può voler dire che si tratta di ricerca di alto livello ma anche essere semplicemente la conseguenza di un ambito di studio accattivante e provocatorio, più “catchy” insomma.
Anche Sebastian Springer, biochimico della Jacobs University di Brema che ha lavorato con Schekman a Berkeley, conviene con i colleghi riguardo al fatto che ci sono grossi problemi nella pubblicazione scientifica. Tuttavia aggiunge che ora come ora non esiste un modello migliore. “Il sistema non è meritocratico”, spiega Springer, “Non necessariamente leggerete i paper migliori su queste riviste. Gli editori non sono scienziati professionisti, ma giornalisti – il che non è il problema principale – e di certo privilegiano la novità ai lavori più solidi”.
I comitati d’assunzione degli istituti, convengono gli scienziati, dovrebbero prendere atto di questo problema: guadagnarsi con il merito una posizione di rilievo non è sufficiente, per un ricercatore, perché al momento dell’assunzione assegni, cattedre, borse di studio e finanziamenti vengono concessi sulla base delle riviste sulle quali ha pubblicato.
Non poteva mancare l’altra campana: Philip Campbell, redattore capo di Nature, ha spiegato che la rivista lavora con la comunità scientifica da più di 140 anni ormai, facendo tesoro del supporto che arriva direttamente dagli autori e dai critici. “Selezioniamo le ricerche che vengono pubblicate su Nature in base al loro valore scientifico”, ha commentato “ E questo certamente conduce e maggior numero di citazioni e copertura da parte dei media. Ma non sono questi gli elementi che indirizzano l’operato dei redattori della rivista, e non sarebbe possibile predire il successo di una ricerca nemmeno volendolo”.
Lo stesso Nature Publishing Group, spiega Campbell, quest’anno ha condotto uno studio per individuare i principali fattori che vengono considerati nello scegliere la rivista alla quale sottoporre un paper. Sono stati coinvolti più di 20.000 scienziati, e sono emersi tre elementi ricorrenti:
Reputazione della rivista
Importanza nell’ambito della ricerca in questione
Impact factor
“Sia io che i miei colleghi”, aggiunge Campbell, “Abbiamo espresso più volte durante gli anni le nostre preoccupazioni riguardo al fare eccessivo affidamento sull’impact factor, sia sulle pagine di Nature sia altrove”.
Rincara la dose Monica Bradford, redattore esecutivo di Science, commentando “Abbiamo un’alta tiratura, e stampare paper in più comporterebbe costi non indifferenti. Il nostro staff editoriale effettua una peer review meticolosa e professionale, tramite la quale decide quali selezionare per essere inclusi nella rivista. Non c’è nulla di artificiale nel tasso di accettazione, riflette semplicemente lo scopo e la missione di Science”.
Anche Emilie Marcus, redattrice di Cell, ha commentato “Sin dalla sua fondazione, circa 40 anni fa, Cell si è concentrato sul fornire una forte visione editoriale: i migliori autori seguiti da editori professionisti, una peer review rapida e rigorosa da parte di ricercatori di primo piano e un livello di lavoro sofisticato. La raison d’etre di Cell è quella di servire la scienza e gli scienziati: se fallissimo nell’offrire un valore sia agli autori sia ai lettori la rivista non prospererebbe. Per noi lavorare in questo modo è un principio, non un lusso”.
Due facce della medaglia così discordanti fanno di certo pensare. Concludendo con Schekman: “Io sono uno scienziato. La mia è una realtà professionale che persegue grandi obiettivi per il bene dell’umanità, ma viene deturpata dagli incentivi sbagliati. Gli scienziati stessi dovrebbero essere più partecipi, con l’obiettivo ultimo di una ricerca migliore, che fornisca un miglior servizio a scienza e società”.
Fonte: The Guardian
Crediti immagine: James Kegley, Wikimedia Commons