AMBIENTE – È sufficiente raccogliere le conchiglie sulla spiaggia per contribuire all’alterazione dell’ecosistema. Questi souvenir, che per noi sono gratuiti, hanno infatti un costo significativo sull’ambiente: a farne le spese il ciclo del carbonato di calcio, che si impoverisce drasticamente, i litorali, che vengono erosi più velocemente, e di conseguenza gli stessi animali, con un calo della varietà di organismi marini.
Lo ha messo nero su bianco uno studio, frutto della collaborazione tra l’Università della Florida e la Facoltà di Geologia dell’Università di Barcellona e pubblicato sulla rivista Plos One, in cui gli scienziati hanno monitorato l’incremento del flusso turistico, la riduzione delle conchiglie e alcuni dei suoi effetti in una baia nel nord della Spagna mediterranea, a Llarga Beach Salou. Qui, negli ultimi trent’anni, il carico di turisti è quasi triplicato mentre, al contrario, nello stesso arco di tempo la quantità di conchiglie sulla costa si è ridotta a quasi un terzo. Sono dati che fanno riflettere su come un gesto che può sembrare innocuo possa di fatto alterare l’equilibrio di un habitat. Ma quali sono gli altri comportamenti tipici del turista che, inconsapevolmente, nascondono ricadute negative sull’ecosistema? Ne abbiamo discusso con Mara Manente, direttrice del Centro Internazionale di Studi sull’Economia Turistica (Ciset) dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, un istituto dove tra i diversi filoni di ricerca alcuni sono finalizzati proprio a definire le linee guida per lo sviluppo di un turismo sostenibile.
“Uno dei comportamenti più studiati”, spiega Manente, “riguarda il traffico di visitatori che un parco naturale può supportare senza subire particolari alterazioni”. Cosa significa? Che se il flusso di turisti all’interno di una riserva naturale è eccessivo, o il percorso non è ben strutturato, oppure i visitatori fuoriescono dai tracciati, la loro presenza può risultare invasiva nei confronti della fauna e della flora e avere un grosso impatto. “Basti pensare a quanto possa pesare un traffico turistico eccessivo o mal direzionato durante il periodo riproduttivo degli animali” continua la direttrice.
Stimare la pressione che viene esercitata dai turisti sui vari sentieri di un parco naturale risulta quindi necessario, soprattutto in determinati periodi dell’anno, così come è un comportamento a rischio abbandonare i tracciati per avvicinarsi maggiormente agli animali, per cogliere scorci particolari di paesaggio così come per scattare fotografie. “Anche i turisti green, quelli che più amano trascorrere il loro tempo libero in mezzo alla natura, costituiscono, se gestiti in modo precario o se inconsapevoli di alcune regole, un fattore di rischio per la sopravvivenza delle specie vegetali e animali” va avanti Manente: “Paradossalmente, a volte il visitatore che, per il solo fatto di apprezzare la vita all’aria aperta crede di essere un turista sostenibile, può non rendersi conto che la sua presenza, senza le dovute cautele, sta di fatto contribuendo al degrado della risorsa naturale”.
I primi a rendersi conto della necessità di razionalizzare i flussi turistici per la gestione delle riserve naturali sono stati i responsabili dei grandi parchi canadesi e statunitensi. A partire dagli anni ’70, l’area attorno a Vancouver e lo stesso parco di Yellowstone erano già attivi nell’individuare le zone più fragili e porre attenzione al carico di visitatori, avviando per la prima volta ricerche scientifiche verso un turismo responsabile poiché riconoscevano l’importanza di preservare la biodiversità e intendevano connotarsi in questo senso.
“Un altro fattore di rischio, soprattutto nelle zone di montagna o nei boschi, è rappresentato dal semplice fatto di parlare a un volume elevato” va avanti Manente: “Quello acustico è una forma di inquinamento che può creare grosse difficoltà agli animali”. Un esempio, oltre alla riproduzione, è la nidificazione: ci sono infatti specie di uccelli che, se molto spaventati dal rumore, possono decidere di migrare lasciando completamente scoperte alcune aree, oppure abbandonare improvvisamente il nido, anche in presenza di uova o dei piccoli. Lo stesso discorso vale per i flash delle nostre macchine fotografiche che, se usati in maniera invasiva (per esempio di notte, nei luoghi di riparo, o semplicemente molto da vicino), possono risultare davvero molto sgradevoli per gli animali.
“I comportamenti potenzialmente dannosi, anche nei turisti virtuosi, sono moltissimi” spiega Manente, “poiché ciascun luogo naturale ha i suoi equilibri e i suoi punti di fragilità, e la valutazione va fatta tenendo in considerazione le caratteristiche del luogo e l’andamento del flusso turistico anche in relazione ai diversi periodi dell’anno”. In questa direzione si muove Marine Strategy, un progetto di protezione ambientale appena avviato proprio dal Ciset all’interno di un piano europeo regolato dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra). L’obiettivo è proteggere, salvaguardare e, se necessario, ripristinare l’ambiente marino del Mediterraneo, prendendo in esame proprio la pressione dovuta ai fenomeni legati al turismo. Verranno messi al vaglio l’impatto delle grandi navi da crociera così come quello dei porti turistici e delle piccole imbarcazioni, per valutare per esempio la capacità dei bacini marini di smaltire olio e carburante che vengono sversati nelle acque, ma non solo. Sotto torchio anche la pressione ambientale dovuta alla cementificazione costiera per la costruzione di strutture ricettive a bordo nave. Altro campo d’indagine, quello legato alle attività specifiche connesse al turismo nautico, assieme alla valutazione delle responsabilità di ciascuna categoria di turisti sul nostro patrimonio marino e marittimo.
Crediti immagine: suzettesuzette, Flickr)
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