RICERCA – A metà del 500 d.C. un’epidemia di peste, nota come la Peste di Giustiniano, mieté circa 25 milioni di vittime e si diffuse in Asia, Nordafrica, Europa e nella Penisola arabica. Ottocento anni dopo, un’epidemia simile, la Peste nera, causò la morte di un terzo della popolazione continentale: le stime si aggirano sui ai 50 milioni di decessi.
Ora un gruppo internazionale di epidemiologi ha scoperto che queste due devastanti epidemie furono provocate da ceppi distinti dello stesso agente patogeno. Uno di questi ceppi si è estinto da solo, mentre l’altro si è diffuso nel mondo intero, per poi riapparire nel tardo XIX secolo. I risultati del gruppo indicano che, in futuro, non è detto che non possa emergere un nuovo ceppo del patogeno pestilenziale, e colpire nuovamente la nostra specie.
Per Hendrik Poinar, biologo del Centro McMaster per il Dna antico di Hamilton, Canada, “le conclusioni dello studio aprono la strada all’esplorazione di quesiti finora senza risposta. Per esempio, perché quest’epidemia, responsabile di decine di milioni di morti, a un certo punto si è esaurita?”.
La scoperta è significativa soprattutto alla luce delle conoscenze molto limitate sulle origine o la causa della Peste di Giustiniano, che contribuì alla fine dell’Impero romano, e sulla sua relazione con la Peste nera. I biologi sperano che, proseguendo lo studio, si possano comprendere meglio le dinamiche della malattia infettiva moderna, inclusa una forma della peste ancora oggi responsabile della morte di diverse migliaia di persone nel mondo.
I ricercatori del gruppo, afferenti a tre diverse università (una canadese, una statunitense e una australiana), hanno isolato con metodi sofisticati minuscoli frammenti di Dna dai denti di due vittime della peste di Giustiniano, ritrovate in Baviera e risalenti a 1500 anni fa. Si tratta dei più antichi genomi di questo patogeno mai reperiti. Usando questi brevi frammenti il gruppo ha ricostruito il genoma del ceppo più antico dello Yersinia pestis, il batterio responsabile della peste, e lo ha comparato a un database di genomi comprendente più di cento ceppi contemporanei.
I risultati, pubblicati sull’edizione online del Lancet Infectious Diseases, dimostrano che il ceppo responsabile della Peste di Giustiniano fu una specie di ‘vicolo cieco evolutivo’, distinto dai ceppi successivamente coinvolti nella Peste nera e nelle epidemie di peste posteriori. “Sappiamo che il batterio Yersinia pestis è stato storicamente trasmesso dai roditori agli umani, e ancora oggi esistono in molte zone del pianeta focolai di questo batterio in colonie di ratti. Se la peste di Giustiniano è potuta apparire nella popolazione umana, causare un’epidemia di tali proporzioni e poi estinguersi, è segno che un simile percorso potrebbe ripresentarsi. Fortunatamente oggi abbiamo antibiotici efficaci contro la peste, il che riduce le possibilità di un’altra epidemia”, afferma Dave Wagner, microbiologo dell’Università dell’Arizona.
Secondo i ricercatori, il ceppo che diede origine alla peste di Giustiniano sarebbe apparso in Asia, e non in Africa, come si pensava. Non si è però riusciti a stabilire un ‘orologio molecolare‘, per cui l’evoluzione temporale del ceppo resta da chiarire. In mancanza di dati, si è ipotizzato che anche epidemie come la Peste di Atene (430 a.C.) e quella di Antonino (165-180 d.C.) possano essere state causate da ceppi di Y. pestis emersi indipendentemente nell’uomo.
“La scansione dell’orologio molecolare del batterio della peste è molto irregolare. Capirne il perché è un obiettivo importante delle ricerche future”, spiega Edward Holmes, dell’Università di Sydney. La nostra risposta alle malattie infettive contemporanee è una conseguenza diretta delle lezioni apprese dalle epidemie storiche. “Questo studio solleva domande interessanti sul motivo per cui un patogeno così efficace e così mortale sia scomparso. Una possibilità da testare – suggerisce Holmes – è che le popolazioni umane si siano evolute al punto tale da esserne meno suscettibili”. “Un’altra – conclude Wagner – è che i cambiamenti climatici abbiano sfavorito la proliferazione del batterio”.
Crediti immagine: Rocky Mountain Laboratories, NIAID, NIH, Wikimedia Commons