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Le origini della Stazione Spaziale Internazionale

Dalla Guerra Fredda a oggi, la storia di una collabrazione scientifica internazionale

SPECIALE NOVEMBRE – Quando Samantha Cristoforetti, la prima donna italiana nello spazio, vi metterà piede il 23 novembre (salvo ritardi nel lancio) sarà passato da meno di un mese il quattordicesimo anniversario della presenza umana continua sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS). Questa lunga catena è iniziata ufficialmente il 2 novembre del 2000, quando gli astronauti Bill Sheperd, Yuri Gidzenko e Sergei Krikalev diventano il primo equipaggio residente per una missione di alcuni mesi. Ma la storia delle stazioni orbitanti e dell’ISS comincia molti anni prima.

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Il personale di volo della ISS Expetidion One (da sinistra a destra): il flight engineer Sergei Krikalev, il comandande della spedizione Bill Shepherd e il comandante della Soyuz Yuri Gidzenko

Alle origini lo scontro USA-URSS

Il primo capitolo di questa storia si apre nel clima della Guerra Fredda. All’inizio degli anni Settanta, mentre gli americani sono concentranti sul programma Apollo (quello della conquista della Luna), i sovietici sono già al lavoro per la creazione della prima stazione spaziale orbitante con personale permanente. Si tratta del programma civile Salyut, aperto ufficialmente nel 1971 per scopi di ricerca scientifica fuori dall’atmosfera terrestre. Salyut 1 è diventata la prima stazione spaziale a orbitare attorno alla Terra già nel 1971, quando è portata in orbita dalla missione Soyuz 10.

Il programma Salyut batte diversi record, come quello del primo avvicendamento dell’equipaggio su di una stazione spaziale, e continua a funzionare fino al 1986, quando viene sostituito dal Mir, il programma che manderà in orbita la famosa omonima stazione spaziale: la prima stazione modulare della storia. Gli americani, però, impiegano quasi quindici anni per rispondere ai primi risultati sovietici, quella della Salyut. Accade nel 1984, quando in gennaio il presidente Ronald Regan chiede ufficialmente alla NASA di costruire una stazione spaziale a stelle e strisce: la Freedom.

Le motivazioni americane, oltre che di prestigio, potrebbero avere anche motivazioni militari. Il programma sovietico Salyut, infatti, era affiancato da un’altro progetto militare, l’Almaz, cominciato addirittura negli anni Sessanta, ben prima che Neil Armstrong facesse il suo famoso piccolo passo. L’Almaz aveva scopi principalmente di ricognizione del territorio nemico ma prevedeva la presenza di personale a bordo e, addirittura, la dotazione di cannoni a scopo difensivo. I tre lanci del programma Almaz, segretissimi, vennero effettuati tra il 1973 e il 1976 sotto il nome di Salyuz per confondere le acque. Il progetto prevedeva inoltre lo sviluppo di una navetta capace di portare in orbita e riportare a terra gli astronauti.

Libertà vs. Pace

L’annuncio di Reagan era chiaro: la stazione americana sarebbe stata pronta e orbitante nell’arco di dieci anni. La realtà si è rivelata ben diversa, perché tra il 1984 e il 1993 il progetto Freedom è stato progressivamente ridimensionato e ripensato. La storia è complicata e coinvolge anche il cambio di presidenza e l’impegno dell’amministrazione Bush sr. nella Prima Guerra del Golfo. Quello che conta è che la Freedom non è mai stata realizzata e lo sforzo tecnico scientifico americano è confluito negli anni Novanta nella progettazione della Stazione Spaziale Internazionale, un capitolo che si è aperto solamente quando la Guerra Fredda si è definitivamente conclusa.

Mentre la Freedom perdeva, non solo metaforicamente, i pezzi per strada arenandosi nelle pastoie della burocrazia USA, il programma Salyuz sovietico veniva chiuso non tanto per disinteresse o insuccesso, ma perché sostituito dal più ambizioso e moderno progetto della Mir (il cui nome significa “pace”). La prima stazione modulare è stata un successo, perché – qualche battuta di arresto a parte, come l’incendio a bordo del 1997 – ha potuto contare sulla decennale esperienza maturata nel programma Salyut e ha permesso, oltre che di effettuare esperimenti scientifici nello spazio, anche di testare per la prima volta le conseguenze sull’uomo di una permanenza prolungata nello spazio.

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La stazione Mir vista dallo shuttle Atlantis il 4 luglio del 1995 durante la missione STS-71

L’unione fa la forza. Economica

Con la fine della cosiddetta corsa allo spazio per la dissoluzione politica di uno dei due contendenti, l’URSS, e l’asfissia economica della NASA, i singoli progetti nazionali, sia la Freedom che la Mir-2 che doveva prendere il testimone russo, vengono cancellati. Scomparso, o almeno molto ridimensionato, l’elemento di predominio tecnologico (e della conseguente capacità di minacciare l’avversario) tipica dello scontro tra superpotenze, l’amministrazione americana decide di fare il giro delle sette chiese e trasformare quello che restava del progetto Freedom in una grande collaborazione internazionale. Siamo negli anni Novanta, con la Mir da poco in orbita e funzionante e, nonostante le difficoltà, sembra di assistere a una nuova accelerazione, senza che questa volta sia la competizione a imprimerla.

L’ultimo modulo della Mir viene agganciato nel 1996 e solo due anni dopo, nel 1998, vengono lanciati nello spazio i primi moduli per la realizzazione dell’ISS. Lo sforzo è un’azione congiunta delle agenzie statunitense, russa, giapponese, canadese ed europea. Una collaborazione per lo spazio, come già da qualche tempo si fa per la costruzione di grandi laboratori ed esperimenti internazionali sulla Terra, basti pensare a quell’apripista che fu, in questo senso, il CERN di Ginevra.

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Il modulo PMA-2 fuoriesce dello shuttle Endeavour e viene agganciato all’estremità del laboratorio Destiny

La maggior parte dei moduli vengono portati in orbita attraverso lo shuttle americano, ma anche i razzi russi contribuiscono nella fase di trasporto. Durante i due anni di costruzione nello spazio, il governo russo mantiene in attività anche la Mir, finché, a lavori dell’ISS conclusi, la struttura viene fatta deorbitare nell’ottobre del 2000, mandandola a distruggersi nell’atmosfera terrestre.

Dopo la missione iniziale, la Expedition One che portò i primi veri inquilini, l’ISS ha continuato a ingrandirsi fino a raggiungere i 15 moduli complessivi alla fine degli anni 2010. Oltre al laboratorio Destiny, il principale laboratorio scientifico sul Stazione, ci sono i moduli abitativi, la cucina, l’airlock, i siti di attracco per le navicelle di rifornimento e di trasporto, ma anche tutta una serie di strutture di servizio, come i panelli fotovoltaici e i bracci robotici. Per un’idea di come sia l’ISS, eccovi il video che il comandante Sunita Williams ha girato nel 2012 poco prima del termine della sua missione:

L’Italia ha partecipato, come membro dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), allo sviluppo di diverse parti della struttura dell’ISS. Tra di esse si segnalano i moduli polivalenti per la logistica, gli MPLM, utilizzati come cargo e sviluppati da Thales Alenia Space, oltre ad aver partecipato alla realizzazione di parte della cupola di osservazione e a vari altri moduli. Curiosità: anche l’acqua che si beve a bordo è italiana e viene dalla SMAT di Torino. Importante anche la partecipazione di astronauti italiani: la Cristoforetti sarà il settimo astronauta nostrano, dopo Franco Malerba, Umberto Guidoni, Roberto Vittori, Paolo Nespoli, Maurizio Cheli e Luca Parmitano.

Pocho tempo fa NASA ed ESA hanno firmato l’accordo per il prolungamento dell’attività dell’ISS fino al 2024, ma si discute anche di arrivare al 2028. Il che significa che c’è qualche tempo in più perché la nostalgia della Terra ispiri il lato artistico degli astronauti, come è successo al comandante Chris Hadfield, diventato famoso per una sua personale interpretazione di Space Oddity di David Bowie:

@ogdabaum

Leggi anche: The mission: un anno nello spazio

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.
Crediti immagine:
NASA

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Marco Boscolo
Science writer, datajournalist, music lover e divoratore di libri e fumetti datajournalism.it