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Un modello animale per l’Insonnia fatale familiare

Sviluppato da un team milanese il primo modello murino per studiare una delle malattie prioniche più rare al mondo

6041578611_e40d87dddf_zRICERCA – Quando si parla di malattie prioniche si fa riferimento a patologie come l’encefalopatia spongiforme bovina, cioè la nota “Mucca pazza” o negli esseri umani alla malattia di Creutzfeldt-Jakob, entrambe patologie neurodegenerative rare gravissime. Ci sono però anche altre malattie prioniche, molto più rare e per cui non esiste ancora una cura. Una di queste è l’Insonnia Fatale Familiare (IFF), che colpisce pochissime persone nel mondo e che si origina dalla stessa mutazione della malattia di Creutzfeldt-Jakob, ma in un altro sito genico.

Il nome racconta esattamente di che cosa si tratta: un’alterazione dell’attività proteica che fa sì che non si riesca più a dormire, fino a morirne. Presenta dapprima sintomi come insonnia, tremiti, problemi di coordinazione, per poi sfociare in disturbi cognitivi e in importanti alterazioni del sistema vegetativo.
Oggi purtroppo non si guarisce da IFF, ma è notizia di questi giorni che un team di ricercatori dell’Istituto Mario Negri di Milano, in collaborazione con l’Università Statale e l’Istituto Neurologico Carlo Besta, è finalmente riuscito a creare un modello animale per studiare la malattia, e che ha già permesso di capire qualcosa di più circa la sua evoluzione. Lo studio, finanziato da Telethon, dal Ministero della Salute e da Fondazione Cariplo, è stato pubblicato su PLOS Pathogens.

In particolare, il modello “suggerisce che la causa della disfunzione e della morte dei neuroni sia l’accumulo della proteina prionica nella via secretoria, ovvero in quel compartimento all’interno della cellula in cui transitano le proteine destinate alla membrana cellulare o all’esterno della cellula” spiega nel comunicato stampa Roberto Chiesa, dell’Istituto Mario Negri.

“La malattia è stata descritta per la prima volta quasi 30 anni fa, nel 1986, ma purtroppo non solo non disponiamo ancora di una cura, ma non sappiamo molte cose su di essa” racconta Luca Imeri dell’Università Statale, uno dei ricercatori coinvolti nello studio. “Il punto è che in realtà sappiamo poco sulla proteina prionica, il cui cattivo funzionamento provoca l’insorgere della malattia” continua Imeri. “Non sappiamo per esempio a che cosa serva, ma solo che quando qualcosa non va le conseguenze sono severe.” Molto di quello che conosciamo è dovuto alle ricerche di Stanley Prusiner, che vinse per questo il Nobel la medicina nel 1997.

“Una seconda cosa che abbiamo notato grazie al nostro modello animale è un’alterazione a livello dell’apparato di Golgi; quello che ci manca invece è ricostruire tutta la catena di eventi che dallo scatenarsi della malattia, che ricordiamo è genetica, porta alla morte dell’individuo in un tempo relativamente breve, che va dai 6 mesi ai 2 anni circa.”

Il fatto che sia una malattia estremamente rara inoltre non agevola le ricerche perché non permette di studiare campioni significativi di malati per elaborare delle statistiche, come invece avviene per la maggior parte delle patologie. “Per questo un modello animale è molto importante. Usiamo topi transgenici che anche se non sono del tutto uguali all’essere umano, sono comunque sufficientemente simili per essere assunti come modello per studiare quello che accade nell’uomo.”

@CristinaDaRold

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   
Crediti immagine: Rachel CALAMUSA, Flickr

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.